venerdì 5 dicembre 2014

Sull'inclusione

Proseguo la mia riflessione iniziata con il post Bisogni educativi normali di circa un anno fa.

Riguardando tutti i materiali che ho ricevuto ultimamente dagli insegnanti con cui conduco corsi di formazione di matematica, ripensando complessivamente ai percorsi che stanno facendo, mi pare di cogliere la difficoltà a lasciar agire i bambini da soli ponendo dei problemi relativi all’argomento di studio, problemi che siano in grado di affrontare ma di cui non possano vedere una soluzione immediata.
Si preferisce, perché pare più facile, condurre un’attività collettivamente e poi in un secondo tempo dare il compito come verifica della comprensione. Questa modalità, molto diffusa, secondo me nega inclusione fin dall’inizio. Dà l’illusione di risparmiare tempo perché ovviamente se è l’insegnante a condurre il gioco, i bambini vanno dove lei vuole e questo è anche molto gratificante per l’insegnante perché offre un’ulteriore illusione, quella di essere seguiti dai bambini … perché i più bravi rispondono sempre ma si taglia già in partenza una bella fetta della classe (e se ne è consapevoli, questo è il peggio!).

Mi spiego meglio.

Per aiutare i Bambini In Difficoltà (che poi sono tutti i bambini in qualche occasione):
-dobbiamo avere un’idea delle concettualizzazioni che hanno veramente cioè di ciò che hanno acquisito come strumento concettuale perché ne fanno uso per costruire dei ragionamenti;
-nello stesso tempo ci serve capire quali sono i meccanismi per cui ad un certo punto tutto si inceppa e i bambini, non tutti ma soprattutto quelli che vogliamo includere, non capiscono più.

Ci manca sempre il punto di partenza reale. Dove dobbiamo raccoglierli questi BID?

Per cominciare, provo a sfatare i due miti di cui sopra, il primo è il più facile…

Se faccio il lavoro collettivo risparmio tempo: non è vero, perché poi, siccome metà della classe è rimasta fuori dal discorso, bisogna riprendere più volte le stesse cose e quindi, alla fine, si perde un sacco di tempo.

Ci sono arrivati i bambini: non è vero, ci sono arrivati alcuni bambini … e tutti gli altri? per onestà si dovrebbe dire: c’è arrivata la maestra con alcuni (pochi) bambini… gli altri? Non sono stati attenti e quindi vanno redarguiti.

Ci siamo mai chiesti qual è il clima che si crea in classe con questo comportamento? La frattura è evidente.

Che fare per superare questo modo di fare?

Secondo me occorre ribaltare il discorso. Non avere paura di lasciar fare le cose ai bambini come le sanno fare. Anzi partire sempre da quello che sanno fare per poter poi cercare le strade più idonee a portarli avanti. Se si fa sempre così è quasi impossibile lasciare indietro qualcuno o per lo meno si è sempre coscienti del punto a cui ciascuno di loro è arrivato per poterlo riprendere a parte da lì, differenziando quando è necessario ma offrendo spazi di costruzione di idee per tutti.

Ritorno al discorso iniziale per arrivare ai problemi partendo però da una considerazione che si colloca fuori dal nostro contesto.
Ho letto tempo fa il libro di Paul Le Bohec ‘Il testo libero di matematica’. Chi conosce Le Boech sa che è un maestro francese, mancato alcuni anni fa, che si rifà a Freinet e quindi il termine ‘testo libero’ ci sta.
Mentre lo leggevo pensavo (e lo penso ancora adesso): “Bellissime cose… ma per fare questo lavoro occorre essere dei geni della matematica!”
Le Boech era capace di estrapolare da ciò che producevano ‘liberamente’ i bambini i contenuti matematici che servivano a sviluppare un discorso coerente e produttivo dal punto di vista dell’apprendimento. Senza entrare nel merito delle produzioni matematiche ‘libere’ dei suoi allievi, posso dire che nel suo metodo c’è una certa consonanza con il discorso sull’inclusione che sto cercando di elaborare a partire da una riflessione sulle realtà scolastiche con cui vengo a contatto quotidianamente.
Un elemento importante è sicuramente il partire da ciò che producono i bambini e dalla fiducia che quei prodotti comunque possano portare a costruire qualcosa di importante.
Questo secondo me vuol dire rispettare i bambini e le loro capacità mentali per limitate che possano essere.
Questa è la lezione che lui ci può dare ed è valida per sempre.

Ciò che per Le Boech era spontaneo perché amava e conosceva bene la matematica, nell’insegnante ‘comune’ deve essere costruito.
Proviamo a pensare a qualche scenario.

Immaginiamo che un giorno un insegnante arrivi a scuola e ponga ai bambini un problema semplice ma abbastanza intrigante, una specie di sfida.
Come reagiranno i bambini? Ci staranno? Che tipo di azione potrebbero intraprendere? La curiosità dell’insegnante è un aspetto fondamentale.

I bambini fanno e disfano, si arrabattano a cercare materiali e strumenti, tirano fuori tutte le conoscenza che hanno con uno scopo… alla fine hanno i loro prodotti e li consegnano all’insegnante.
Che cosa ne fa l’insegnante? Li guarda e separa giusto da sbagliato? Direi proprio di no…
Prende tutto e cerca di capire dove sono gli allievi, non tutti complessivamente, ma ognuno di loro, cerca di risalire alle idee contenute anche nelle cose più ‘sbagliate’, assume un atteggiamento positivo, cerca di valorizzare ogni minimo contributo al percorso di costruzione conoscenza collettiva che ha avviato ponendo quel problema.

Ecco il momento successivo… ritornare alla classe… discutere tutti insieme di ciò che è successo, individuare modalità diverse di affrontare lo stesso problema e vedere ciascuna dove ha portato.
Alla fine si arriva ad una presa di coscienza di ciò che si è imparato tenendo conto che non tutti saranno arrivati allo stesso punto ma ci arriveranno perché il gioco continua… è un ciclo che si ripete e genera una storia dell’imparare a scuola che non ha mai fine, una mia amica matematica la chiama ‘la storia infinita’.
Se gli insegnanti prendessero coscienza della possibilità di cominciare scrivere con i loro allievi questa ‘storia infinita’, della bellezza e della gratificazione che porta con sé, non avrebbero bisogno di altro. La loro soddisfazione si tradurrebbe in un totale cambio di atteggiamento nei confronti della classe e in un cambiamento complessivo del clima dell’ambiente in cui ogni giorno i nostri bambini per tante ore si trovano a vivere.

venerdì 19 settembre 2014

Mce in avanti...

Pubblicazione di Emma Ericsson.

La Ridef, grande momento comune... che cosa ci ha lasciato? Tanta voglia di fare e di comunicare. Ci aiuta un blog, un sito? è quel che vogliamo sperimentare lavorando tutti insieme ad un sito più muovo, più interattivo, luogo di incontro per tutto il Movimento.

domenica 2 marzo 2014

Valutazione.. autovalutazione .... merito

Valutazione... autovalutazione... merito... sono tutte parole e cambiamenti infrastrutturali che aumentano solo il disagio degli insegnanti e di riflesso quello della scuola nel suo complesso, mentre il problema che sta alla base, quello strutturale, rimane sempre...

Provo a esternare qualche cosa che penso da sempre ma mentre lo scrivo mi sento già come Don Chisciotte contro i mulini a vento.. tuttavia qualche volta quella vena di pazzia che ti porta a combattere contro i mulini a vento dà qualche soddisfazione.

Penso che la maggior parte degli insegnanti italiani non riescano ancora, e forse non riuscirà mai, a pensarsi come professionista dell'insegnamento e quindi continui per forza a ragionare in modo corporativo, cioè come una categoria di lavoratori 'a parte' che deve solo pensare a salvaguardare diritti acquisiti in tempi ormai remoti. Questo anacronismo frena qualsiasi possibile azione di governo o di sindacato, ammettendo che ci sia da parte di entrambi la voglia di fare qualcosa di utile per la scuola (vedremo nei prossimi mesi che piega prenderanno gli eventi).

Forse (e sottolineo il forse) per diventare professionisti e sentirsi tali bisognerebbe cominciare ad avere un orario di lavoro comprensivo di tutto (ore di cattedra + ore di funzione docente + ore di formazione obbligatoria) da svolgere a scuola ripartendo le varie attività in modo sensato durante tutto l'anno scolastico (compresa l'estate), cioè un orario vero di lavoro come le altre categorie di professionisti e ovviamente uno stipendio almeno raddoppiato...

Forse bisognerebbe avere gli stessi orari di cattedra: perchè gli insegnanti della secondaria debbono continuare ad avere solo 18 ore di cattedra e nemmeno l'obbligo di fare la programmazione a scuola mentre alle elementari se ne fanno 22 + 2 di programmazione obbligatoria? In fondo sono solo 6 ore di lavoro in più con uno stipendio inferiore... questo aiuta a far maturare il senso di professionalità degli insegnanti della primaria (l'infanzia è messa ancora peggio, forse)? aiuta a rinnovare i metodi di insegnamento? o crea barriere al dialogo che secondo me non è più eludibile?
Partiamo da una ridefinizione complessiva e comune tra i vari ordini scolari del ruolo dell'insegnante... proviamo a ricostruirne la visione... diamo visibilità alla professionalità insegnante spiegando che cosa  comporta giorno per giorno... quantifichiamo e qualifichiamo... rendiamo visibile il sommerso... se alla fine verrà fuori che il 90 per cento degli insegnanti non fa nessuna progettazione didattica, usa solo il libro di testo e fa lezioni frontali per la maggior parte del tempo di cattedra... e via dicendo allora non penso ci sia nemmeno sa pensare che il merito risolva qualche problema perché riguarderebbe una percentuale così bassa di insegnanti da non incidere nemmeno marginalmente sul complesso della scuola.

martedì 3 dicembre 2013

Bisogni educativi normali

Tutti i nostri allievi hanno dei bisogni educativi speciali perchè sono delle persone umane con problemi e difficoltà da affrontare ogni giorno.
Non si può essere sempre l'alunno modello a cui basta una spiegazione per capire, ogni allievo ha bisogno di attenzione, di ascolto.
L'apprendimento è una cosa complessa e ha bisogno di un ambiente che lo accompagni.
Mi sono chiesta se sia possibile immaginare e descrivere come debba essere questo ambiente dal punto di vista fisico ed emotivo.
Innanzitutto uno spazio di relazioni in cui ci sia collaborazione e mutuo aiuto, non competizione.
Poi uno spazio in cui muoversi per fare esperienze che aiutino a capire.
Un luogo in cui riconoscersi perchè contiene tracce di ciò che si è detto e fatto, in cui gli oggetti hanno un posto ma anche la possibilità di essere spostati.
Non una classe ma un living... nel vero senso della parola, un posto dove si 'vive', dove ci si sta con tutti i propri pensieri e tutte le proprie 'paturnie'.
Un posto dove ti senti accolto anche se le tue prestazioni in certi momenti non sono quelle che ci si aspetterebbe.
Un luogo con del tempo da perdere per seguire i propri pensieri e coltivare le proprie emozioni.

Questi sono tutti 'bisogni speciali' se confrontati con ciò che offre la scuola ogni giorno, per tanti tanti anni...
Perchè non farli diventare 'bisogni normali' da offrire a tutti?
L'aula è un non-ambiente, le relazioni che si vivono a scuola spesso sono delle non-relazioni.

La scuola ha dei bisogni speciali e qualcuno dovrebbe occuparsene seriamente, i nostri allievi hanno forse solo bisogni normali.

mercoledì 9 ottobre 2013

Il cambiamento e le Nuove Indicazioni

Stamattina mi sono alzata e ho trovato sul tavolo il nuovo numero di Cooperazione Educativa, la rivista del MCE. Sono una vecchia MCE, fin dagli inizi della mia carriera di insegnante elementare nel 1969, i miei maestri sono stati gli storici protagonisti del Movimento degli anni '70, non sto a fare nomi... Allora ero una maestrina di 19 anni con tanta voglia di imparare e di cambiare la scuola. E l'ho fatto fin dagli inizi, prendendomi dei provvedimenti disciplinari perché avevo dato il voto unico, insegnando a leggere e a scrivere con il metodo globale con il direttore che settimanalmente veniva a controllare i progressi dei miei allievi perché non si fidava e via dicendo... Dietro di me però c'era il Movimento... mi sentivo sicura, ero certa di non sbagliare perché c'erano loro, i grandi. Nutrivo una immensa fiducia nella possibilità di cambiare qualcosa nella scuola che sentivo già allora vecchia e noiosa per i bambini. E allora non mi pesavano le serate passate a ciclostilare schede percettive nella vecchia sede del MCE torinese e i pomeriggi a colorarle invece di andare a spasso con il mio fidanzato (che a volte, mosso da pietà, mi aiutava perfino).
Dopo un po' di anni di allontanamento dal Movimento, ho ripreso la mia militanza con il nuovo gruppo di Torino risorto grazie all'impegno di alcune persone che avevo conosciuto in occasione del Progetto SeT e con cui avevo intrapreso un percorso di aggiornamento e sperimentazione.
Ma ritorniamo a bomba... Stamattina ho aperto la rivista e ho visto che il primo articolo era firmato Cinzia Mion e si intitolava 'Alcune idee da esplicitare. Qualche osservazione sulle Nuove Indicazioni'. Mi ero persa l'intervento della Mion a Torino e quindi ho subito cominciato a leggere...
Alla fine della lettura mi sono detta: 'Ma queste cose noi le dibattiamo da almeno vent'anni... e cerchiamo faticosamente di metterle in pratica da altrettanto tempo. Possibile che siamo sempre ai nastri di partenza?'
Un esempio: il testo 'Discutendo si impara' l'abbiamo letto appena pubblicato e da quello abbiamo estratto gran parte delle nostre modalità di interazione con la classe perché combaciava perfettamente con ciò che leggevamo sui testi di Vygotskij e ci indicava una strada percorribile per dare voce ai nostri allievi, per realizzare quell'apprendistato cognitivo che sta alla base dell'apprendimento.
Cito dall'articolo: 'La differenza con l'apprendistato tradizionale sta nel fatto che quello cognitivo pone l'enfasi sui processi mentali cognitivi e metacognitivi soggiacenti alle procedure attraverso il pensiero a voce alta che il docente mette a disposizione dell'allievo mentre affronta un compito complesso rendendo visibili e imitabili i processi che altrimenti rimarrebbero taciti e nascosti.'
Per me niente di nuovo... nella sostanza, ma mi ha fatto molto piacere leggerlo e soprattutto mi è piaciuto come la Mion sia riuscita a intrecciare tutte le cose importanti focalizzandole su alcuni punti cruciali tra cui la costituzione nella scuola di due comunità che interagiscono continuamente: la comunità di apprendimento formata dall'insegnante e dai suoi allievi e la comunità di pratica formata dagli insegnanti del team, o da un gruppo più allargato, che si occupa di progettare i percorsi di apprendimento, di sperimentarli e validarli attraverso il confronto e la riflessione comune.
Nella classe 'comunità di apprendimento' il lavoro non è mai individuale, anche quando concretamente lo è, perché assume sempre una dimensione sociale nel momento del confronto e dello scambio durante la discussione 'orchestrata' dall'insegnante. Scrive la Mion: 'In tale contesto il ruolo del gruppo è forse più importante di quello del docente, oltre alla funzione dell'operatività laboratoriale. L'interazione all'interno del gruppo costituisce l'attività di supporto più significativa fornita dai compagni ai fini del progresso della zona di sviluppo personale.' E ancora: 'I ragazzi hanno sete di senso, ed è questa la molla, la motivazione, attraverso le quali la scuola deve sostenere la curiosità epistemica e il desiderio di competenza: motivazioni intrinseche di bruneriana memoria.'
E allora, se questo è vero, diventa desolante la visione di molte classi in cui l'insegnante arriva, si siede, guarda i suoi allievi tutti ben seduti in fila perché così li può controllare meglio ed evitare che parlino tra di loro, apre il libro, imitata dagli allievi, e dice: 'Pierino leggi a pagina...'
Eppure questo succede ancora ogni giorno nelle nostre scuole, come ogni volta che dico alle maestre di cambiare la disposizione dei banchi per poter far lavorare gli allievi a gruppi, ne scaturisce uno psicodramma... ma non possiamo, le colleghe... le bidelle... Chi vuole, le cose le fa... anche senza le 'nuove' indicazioni. Certo bisogna aver voglia di studiare, di sperimentare, di confrontarsi con altri, occorre professionalità autentica, non c'entra nemmeno la 'passione' (anche se aiuta), forse è solo voler fare bene il proprio mestiere.

sabato 5 ottobre 2013

Costruiamo la geometria insieme ai bambini

L'esperienza degli ultimi due anni di lavoro sulla formazione degli insegnanti, condotta fianco a fianco con una collega della Casa degli Insegnanti che insegnava nella scuola media, è stata per me decisiva perché mi ha consentito di mettere insieme tante idee e di trovare alcune strade percorribili per insegnare veramente la geometria.


Nel workshop che abbiamo tenuto nel Geogebra Italia Day di ieri, 4 ottobre, abbiamo cercato di sintetizzare il discorso di fondo da cui partire per reimpostare i percorsi didattici relativamente a questa parte della matematica.


Io penso che la geometria sia alla base di tutto, che una buona competenza geometrica serva per capire anche molte altre cose della matematica. Usando il software GeoGebra abbiamo inoltre dei valori aggiunti. Guardate la 'lezione' creata con Educreations su iPad dove proponiamo un uso precoce di geometria e qualche altra cosa...


Ci sono solo dei flash che invitano a riflettere, non percorsi didattici ma suggerimenti su come porsi davanti ai problemi che la realtà ogni giorno ci presenta per trarne i contenuti geometrici in modo naturale e spontaneo... senza fermarsi lì, però!







   

Su GeoGebraTube sono invece disponibili i file GeoGebra, realizzati dalla collega di cui ho parlato prima, che sono stati utilizzati per esemplificare alcuni passaggi chiave sull'uso della simmetria e sulla risoluzione di un problema classico, il problema di Erone.


Il cagnetto http://www.geogebratube.org/material/show/id/50301


Robot traslazione http://www.geogebratube.org/material/show/id/50360


Barchetta simmetria http://www.geogebratube.org/material/show/id/50480


Rombo e quadrato http://www.geogebratube.org/material/show/id/50359


Il pacco (il problema di Erone) http://www.geogebratube.org/material/show/id/50459




Prima dicevo che la geometria è un punto chiave per l'apprendimento della matematica, mentre di solito, soprattutto nella scuola elementare, non viene affatto insegnata. Sto parlando ovviamente della geometria sintetica non di quella analitica, quindi qualche insegnante potrebbe sorprendersi di questa affermazione... Ma purtroppo è così, altrimenti non si spiega come mai i ragazzini arrivino alla scuola media senza avere competenza alcuna rispetto agli enti geometrici di base (punto, retta, piano) e alle relazioni fondamentali come parallelismo e perpendicolarità. In realtà sanno parlare di angoli, di rette parallele, di diagonali.... perché sui libri di testo della scuola elementare trovano le definizioni di tutto... ma dietro quelle parole che servono a definire c'è qualche idea di che cosa significhino quelle parole in ambito geometrico? C'è qualche idea di che cosa sia veramente un ente geometrico, quale ruolo svolga nel nostro modo di pensare e ragionare , e di quale astrazione necessiti per poter essere compreso e diventare  uno strumento per risolvere problemi? Secondo me è molto molto difficile... anche perché un'idea corretta e chiara di come funzioni la geometria non ce l'hanno spesso nemmeno gli insegnanti, mi ci metto anch'io ovviamente e non è un caso che per arrivarci abbia dovuto rimettermi a studiare...




Ecco... se c'è la volontà di studiare e di capire forse si può cominciare a riparlarne e poi magari riprendere tutte le solite attività ed esperienze che già si fanno a scuola per dare loro uno sfondo diverso,  una diversa consapevolezza. Solo se cominciamo da noi, dal cambiare il nostro modo di intendere la matematica in generale, possiamo pensare di cambiare col tempo anche il modo di insegnarla.




Volevo concludere con due parole su GeoGebra. Ho detto che ha dei valori aggiunti rispetto all'uso solo di carta e penna. Gli insegnanti che devono imparare a usare il software sono praticamente obbligati a riprendere in mano i libri per ripescare alcune nozioni che probabilmente nel tempo sono state messe nel cassetto perchè non erano esplicitate fra i contenuti della scuola primaria... e questo non fa mai male, aiuta a costruire quella 'diversa consapevolezza'. Per i bambini è un'occasione per capire che cosa significhi generalizzare e quindi un aiuto alla concettualizzazione: pensiamo alla ricerca degli invarianti che scaturisce dalla semplice manipolazione di un oggetto creato con GeoGebra. Si parte da un disegno e piano piano si fa capire che ciò che conta non sono le linee e i punti che spontaneamente imparano a collegare per ottenere una casetta o anche una figura geometrica come il quadrato, ma le relazioni che li legano, quelle che costituiscono la struttura della figura e la mantengono tale anche dopo trascinamenti e altre 'diavolerie'... e da qui ... si va avanti....

lunedì 11 marzo 2013

Metodi miracolosi

Non so se è solo questione di 'puzza sotto il naso' o una sorta di gelosia, sta di fatto che ogni volta che ricevo e-mail che pubblicizzano materiali didattici, presentati come rimedi miracolosi, per far imparare a leggere e scrivere o a contare, mi arrabbio moltissimo e mi chiedo dove stiamo andando a finire. Perchè questo tipo di cose ha tanta presa sugli insegnanti mentre il metodo di lavoro che propongo io (che non è ovviamente una mia invenzione ma il prodotto di anni anni di lavoro e di sperimentazione didattica nel Nucleo di Ricerca), validato da riconoscimenti internazionali, fondato su presupposti psicologici e su una conoscenza della epistemologia della disciplina e via dicendo, non viene accolto nello stesso modo? La risposta è ovvia: richiede studio e fatica, almeno all'inizio, e la capacità di mettere continuamente in discussione il proprio operato. Nella situazione attuale non è popolare parlare di tutto ciò.
Quanto sono disposti a spendere gli insegnanti 'comuni' per prendere in considerazione i processi cognitivi degli allievi, anzichè i loro prodotti? Che cosa deve ancora essere scritto per convincerli che c'è un solo modo per costruire conoscenze durature?