sabato 17 dicembre 2016

Tecniche…. e tecniche Freinet

Sono molto preoccupata dalla “contaminazione” tra tecniche Freinet e altre “tecniche” che stanno dilagando anche grazie alla rete a cui non sono estranei nemmeno coloro che aderiscono al Movimento di Cooperazione Educativa di cui anch'io faccio parte. Pur sforzandomi di non avere preconcetti, essendomi da sempre occupata di matematica, non posso che rilevare la pericolosità di certi tipi di approccio a questa disciplina. Ma, al di là della matematica, ciò che mi fa pensare è come possano convivere le idee pedagogiche del MCE con metodi che di fatto le negano quasi tutte. Le scelte dipendono dalla conoscenza e dalla riflessione personale e non tutti hanno avuto le stesse esperienze formative. Quindi cercherò di spiegare le ragioni della mia preoccupazione avendo piena coscienza del fatto che i bambini sono nelle nostre mani, non solo come corpo ma anche come “testa” e costruire una “testa ben fatta” non è sicuramente semplice. Ci sono però delle certezze, delle convinzioni di fondo rispetto al “come” raggiungere questo scopo che dovrebbero essere condivise.

Forse per riscoprire le nostre radici comuni occorre ritornare a ciò che scriveva Freinet rispetto al “calcolo vivente” e ricontestualizzarlo, mettendo in evidenza la “visione pedagogica” che c’era sotto quella tecnica.
Il “calcolo vivente”, consisteva, se non erro, nel “motivare” l’apprendimento e l’esercizio aritmetico partendo dalla soluzione di problemi matematici “posti dalla vita di classe”, da cui poi l’idea di Le Bohec del testo libero di matematica che, a mio giudizio, va ben oltre il vissuto esperienziale.
Quando si sostiene che prima si devono imparare i calcoli e poi verranno i problemi siamo di fronte ad un’inversione totale del costrutto pedagogico frenetiano. Questo è il primo contrasto che vorrei evidenziare.

Si trovano migliaia di siti che fanno fare calcoli ai bambini trasformando questo esercizio in competizione con se stessi o con altri, e sono altrettanto diffusi eserciziari e strumenti didattici che dovrebbero facilitare il calcolo rendendo tutto immediatamente accessibile, senza pensare. Ma le operazioni aritmetiche non si esauriscono nel calcolo, hanno un significato che si costruisce a partire da situazioni reali, da esperienze elementari che fanno i bambini fin da piccoli, giocando, manipolando materiali, relazionandosi con adulti e compagni. Gli algoritmi di calcolo sono un’altra cosa; nel corso dei secoli ne sono stati inventati tantissimi, alcuni hanno avuto più fortuna altri meno, ma non sono la matematica. Oggi il calcolo scritto non serve quasi più, se non come esercizio mentale, ciò che serve invece è saper calcolare a mente per poter valutare velocemente delle quantità, serve fare calcoli approssimati, non trovare risultati esatti, soprattutto per "controllare" i risultati delle macchine. Quanti di noi dovendo calcolare 1345 x 7851 si mettono ancora a scrivere su carta il calcolo? Per non parlare delle divisioni tipo 256,347 : 0,75 o cose simili. Il cellulare che tutti hanno in tasca ci mette a disposizione la calcolatrice senza limiti di spazio e di tempo e questo ha contribuito a segnare definitivamente il destino del calcolo scritto.
Se ciò che conta è il controllo, come imparare a ragionare su ordini di grandezza anziché su numeri dati? Non c’è dubbio che per dare senso al controllo si debba partire da situazioni reali, che sono sotto i nostri occhi. Ad esempio se vogliamo fare un’ipotesi sensata su quante persone potrebbero trovare posto in un cinema dobbiamo avere una strategia per contare i posti a sedere… immaginare quante persone in una fila… quante file… serve quindi un riferimento all’esperienza e un ragionamento, un modo di affrontare il problema, una strategia.
Questo penso sia anche il senso del “calcolo vivente”, esperienza e ragionamento.

Le tecniche per Freinet erano solo tecniche, ma erano inserite in un contesto pedagogico motivante in cui al centro c’era il bambino che portava a scuola ciò che faceva parte del suo vissuto personale. Su questo vissuto il maestro costruiva il lavoro di classe superando l’uso dei libri e in genere la trasmissione di una cultura già strutturata a favore di una ri-costruzione personale della cultura stessa che seguisse lo sviluppo spontaneo del bambino (il metodo naturale) senza rinunciare al ruolo di guida dell’insegnante e sottolineando nel contempo il ruolo della comunità classe nella co-costruzione di conoscenza, con un accento fondamentale sul ruolo del lavoro cooperativo e collaborativo.
Questo mi pare, come dicevo prima, nettamente in contrasto con una didattica in cui tutto è preconfezionato (da altri, nemmeno dall’insegnante) e in cui i bambini diventano meri esecutori di sequenze di esercizi individuali che vanno fatti così e non diversamente, altrimenti la tecnica non può avere successo. Qui emerge il secondo contrasto: applicazione di regole vs capacità di ragionare in modo autonomo.

I bambini non devono essere addestrati a dare le risposte giuste ma a pensare. Questo è sia nell’ottica della pedagogia popolare sia in quella della cittadinanza attiva: bisogna aver degli strumenti, delle “literacy”, per poter partecipare alla vita democratica. I bambini quindi devono imparare a costruire un ragionamento matematico in modo autonomo.
Gli schedari autocorrettivi di Freinet, non dati una volta per tutte ma costruiti con i bambini e in continuo arricchimento, avevano “solo” l’obiettivo di scaricare l’insegnante dalla gestione degli esercizi routinari, non volevano essere un “metodo”.
Io, pur non applicando sempre alla lettera le tecniche frenetiane (nel tempo le cose si evolvono…), preparavo il mio “schedario” settimanalmente proponendo ai bambini delle sequenze di esercizi sui temi affrontati nella settimana e a questo dedicavo un pomeriggio, durante il quale i bambini lavoravano a gruppi aiutandosi a vicenda. E fra gli strumenti c’erano anche le vecchie schede MCE di calcolo autocorrettive che ai bambini piacevano molto perché consentivano loro di lavorare in autonomia; nel frattempo io ero libera di affiancare i più bisognosi di aiuto. Ma quello era l’unico momento della settimana in cui i bambini avevano a che fare con le “schede”, tutto il resto dell’attività didattica avveniva a partire da problemi contestualizzati in campi di esperienza famigliari ai bambini che venivano risolti a piccoli gruppi, con una “accesa” negoziazione già in questa fase, e poi portati alla discussione collettiva in classe, dove si precisavano i significati matematici da costruire e, poco per volta, le conoscenze erano formalizzate. Questo modo di organizzare il lavoro in classe mette anche in evidenza un terzo motivo di contrasto: lavoro individuale vs lavoro di gruppo o meglio individualismo vs cooperazione.

Bisogna che i bambini abbiano “sete” di conoscenza come viene espresso dalla nota storia del cavallo che non andava a bere. La sete è la motivazione nell’apprendimento e per Freinet era fondamentale. Dubito che la sete di conoscenza si possa alimentare partendo dall’idea che la matematica sia memorizzazione di regole e procedure per imparare a dare in fretta la risposta giusta. Dubito anche che ci si possa affidare interamente all’intuizione per far capire la matematica. L’intuizione può aiutare all’inizio di un percorso per collegare ciò che già si sa con ciò che si sta per imparare. Si pensi ai modelli intuitivi dei problemi di aritmetica: mettere insieme e togliere, per le strutture additive, replicare e fare parti per le strutture moltiplicative; questi modelli, utili per far scattare il ragionamento nelle prime fasi dell’apprendimento, diventano presto degli ostacoli alla comprensione profonda del significato delle operazioni, vanno quindi superati perché senza una presa di coscienza dell’effettivo sapere in gioco non si arriva a conoscenze durature e men che meno a costruire competenze matematiche spendibili successivamente. La scuola frenetiana, pensata in continuità con la società, ha bisogno di conoscenze che durino nel tempo per poterle spendere nella vita quotidiana, sul lavoro. Un quarto motivo di contrasto può quindi essere determinato dall’affidarsi interamente alle capacità intuitive in contrapposizione con la comprensione profonda dei concetti determinata dalla presa di coscienza del proprio sapere: intuizione vs presa di coscienza.

La matematica non è fatta solo di parole ma, come ho già sottolineato più volte, di significati che sono stati costruiti nel tempo e con fatica. La matematica, per sua natura, esige uno sforzo di pensiero notevole perché è una costruzione culturale e del tutto astratta. Per costruire la consapevolezza di cui parlavo prima non basta sapere le parole, bisogna averne interiorizzato il significato, averlo fatto proprio. La professionalità dell’insegnante consiste proprio nel sapere predisporre degli itinerari che conducano i bambini a prendere coscienza del costrutto astratto della matematica senza perdita di significato e in modo quasi naturale. Esattamente come avviene per l’apprendimento della lettura e della scrittura. Un metodo naturale anche per la matematica.
Tutti gli studiosi affermano che il nostro cervello è in qualche modo predisposto alla matematica ma le strutture di base su cui possiamo contare per impararla sono molto elementari, non consentono di arrivare spontaneamente a costrutti teorici complessi. Abbiamo forse qualcosa che si potrebbe definire il “senso della matematica”, una base naturale su cui possiamo contare per costruire un “oggetto” che non è naturale, ma il frutto di un’elaborazione culturale di millenni da parte dell’uomo. Un ruolo determinante in questo processo di riappropriazione è giocato dall’uso di analogie e soprattutto di metafore perché, per poterci rappresentare nella mente i concetti, abbiamo bisogno di trasformarli in qualcosa di tangibile, di concreto cui applicare ragionamenti che siamo in grado di controllare perché fanno riferimento a fatti della vita di tutti i giorni. Non tutte le metafore però funzionano bene, quando sono messe a confronto con il concetto astratto.
Per questo occorre la guida dell’insegnante per orientare il pensiero verso l’uso di metafore che siano produttive dal punto di vista della conoscenza scientifica che, come ho appena detto, non ha quasi nulla di spontaneo. Capire quali sono le analogie produttive e le metafore giuste non è cosa da poco e non bisogna confondere questi costrutti con le libere associazioni mentali che utilizziamo per ricordare o memorizzare anche fatti matematici. Le metafore possono aiutare la comprensione, le tecniche di memorizzazione sono un’altra cosa e soprattutto non hanno un ruolo decisivo nella costruzione del pensiero matematico perché se c’è stata comprensione la memoria permane perché in qualsiasi momento siamo in grado di ricostruire il percorso che ci ha portati all’acquisizione di un concetto. Quinto elemento di contrasto: memorizzazione vs comprensione.

Vorrei ancora chiarire che cosa si intende per “linguaggio della matematica”, perché psicologi e pedagogisti non hanno idee del tutto consonanti con quelle dei matematici. Le batterie di prove utilizzate per testare la discalculia sono infatti oggetto di grande discussione tra matematici e psicologi proprio perché non danno, secondo alcuni, elementi sufficienti per fare una diagnosi di quel tipo. Sono spesso basate su test che nulla hanno a che fare con la comprensione della matematica nel senso che ho descritto prima, testano solo capacità tecniche e strumentali, la punta dell’iceberg quindi. Possiamo parlare di successo in matematica quando ci accorgiamo che i bambini hanno imparato a "pensare matematicamente”, non solo ad usare meccanicamente qualche “segmento” del linguaggio matematico.
Il linguaggio matematico deve diventare una specie di seconda lingua e si è competenti in matematica quando si usa quel linguaggio quasi come se fosse quello naturale, una specie di “protesi” utile per analizzare da quel punto di vista molte situazioni reali.
Ottenere ciò non è facile e soprattutto richiede un notevole impegno, cosa che Freinet penso non abbia mai sottovalutato. Le sue tecniche tendevano infatti a rendere “più leggero” il percorso di conoscenza degli allievi agendo non solo sugli strumenti ma soprattutto sulle motivazioni. Pensiamo all’uso del testo libero e della corrispondenza scolastica per costruire contesti motivanti per gli allievi. Sesto elemento di contrasto: facilità e poco impegno vs difficoltà da superare con fatica (ma non da soli).

La mia preoccupazione per il dilagare di tecniche facilitate e facilitanti è comunque più di tipo pedagogico che didattico. Penso che gli insegnanti più intelligenti siano in grado di accorgersi da soli che non possono fare matematica solo appoggiandosi ad eserciziari o a giochini su internet. Quindi sanno che dovranno comunque integrare certe proposte con attività più impegnative sul piano del ragionamento.
Tutti noi abbiamo usato e usiamo eserciziari per supportare il nostro lavoro nella parte tecnica e routinaria. Ma per i problemi il discorso si fa più complesso. Qualsiasi problema aritmetico va affrontato con consapevolezza del significato delle operazioni se vogliamo che sia risolto, non esistono “ricette” per scoprire l’operazione giusta “senza pensare” (troppo). Deleterio in questo senso l’uso delle parole chiave per “indovinare” il calcolo che portano ad una distorsione di tutti i significati. Le diverse strategie messe in atto dai bambini per risolvere un problema sono una ricchezza, anche quelle errate, perché nel momento in cui diventano oggetto di un confronto tra gli allievi, si trasformano in nuove conoscenze. Durante la discussione in classe i bambini sono invitati a giustificare le loro scelte e quindi ad argomentare, si rendono conto delle idee che non funzionano e di quelle che sembrano più produttive per lo scopo. Il ruolo positivo dell’errore, se la costruzione della conoscenza avviene in un contesto di negoziazione sociale, è fondamentale. Dobbiamo insegnare agli allievi non a “non sbagliare” ma a sbagliare e a rendersi conto degli errori per superarli. In questo a volte i software funzionano perché, invitano a riprovare con dei rinforzi positivi di vario genere, e, se dopo alcuni tentativi, non si trova la risposta presentano le soluzioni corrette. Ma è pur sempre la logica del giusto/sbagliato e soprattutto dell’addestramento. Questo potrebbe essere forse l’ultimo punto di contrasto: addestrare a non sbagliare vs valore positivo dell’errore.

Qualsiasi situazione “matematica” può diventare fonte di apprendimento, come ci ha dimostrato anche Le Bohec con i suoi testi liberi. Ma bisogna saperla “prendere” per aiutare i bambini a rielaborarla, a darle un senso personale perché è questo il vero motore dell’apprendimento, ciò che aiuta i bambini a riutilizzare quella conoscenza in altre situazioni è averne compreso il senso. Questo implica un coinvolgimento personale, la ricerca di un collegamento tra quella situazione e la nostra esperienza, non si può confinare tutto al semplice apprendimento di tecniche che ingabbiano la mente e irrigidiscono i concetti.

Interessante quanto scrive Bruno D’Amore, in un articolo apparso tempo fa su “La vita scolastica online”, rispetto agli errori pedagogici determinati dall’uso di metodi univoci: “Sappiamo oggi che ogni apprendimento umano è “situato”; cioè: se un essere umano apprende qualcosa in una certa situazione (…), apprende sì quel certo contenuto in quella data situazione, ma basta, null’altro! Il transfer cognitivo, cioè la capacità di trasportare l’apprendimento avvenuto in quella situazione a un’altra situazione, non è automatico (…) occorre una generalizzazione dell’apprendimento avvenuto; ma proprio l’aver appreso in una data situazione, con un dato strumento pre-disposto, blocca questo passaggio verso la generalità.”

Concludo citando un breve passo dal libro “La scuola del fare”, un’antologia di scritti di Célestin Freinet curata da Roberto Eynard:
“L’acquisizione dei meccanismi è solo un aspetto accessorio della comprensione intelligente del calcolo. Ciò che importa e che, pertanto, dovrebbe essere seguito in modo particolare, è il senso matematico, risultato di un lungo apprendimento a base di tâtonnement sperimentale e di vita”

Una matematica di senso, quindi.

martedì 1 dicembre 2015

La matematica senza matematica

Resto ogni giorno più sconcertata da come stia passando nelle scuole un modo di insegnare matematica che non ha niente o poco a che fare con la disciplina stessa.
L'aritmetica identificata con il saper fare i calcoli velocemente con tutti i trucchi del caso, la geometria ridotta a saper dire il nome delle figure e classificarle.
Risolvere e porsi problemi sono alla base dell'apprendimento della matematica ma questo aspetto viene anch'esso ridotto a ricetta facilmente applicabile riducendo questa attività a puro esercizio o all'applicazione di procedure standard che spesso contengono anche grossi errori matematici, tutti antidoti all'incapacità di gestire una didattica che si basi sull'elaborazione e il confronto di strategie personali e all'uso dell'errore come strumento per far riflettere gli allievi e aiutarli a superare gli ostacoli cognitivi ed epistemologici della disciplina.
Complice di tutto ciò (ma gliene si può fare una colpa?) un'editoria ormai pervasiva che raccoglie tutte le esigenze e le difficoltà degli insegnanti per farle diventare fonte di guadagno.
Il processo non è recente ma i media, i social network, l'assenza delle istituzioni sul fronte della formazione, la distanza ormai incolmabile tra ricerca didattica e scuola reale, l'accesso a internet e al mercato online, amplificano tutto ciò a dismisura creando una sorta di scuola parallela in cui non interessano i significati o lo spessore culturale di ciò che si insegna ma solo la risposta corretta ai test.
Nonostante il lavoro dell'Invalsi vada in una direzione totalmente diversa e nonostante i risultati negativi dei nostri allievi sul fronte internazionale, pare che ciò che conta alla fine sia fare contenti maestri e professori imparando a dare sempre la risposta giusta, non importa come ci si arriva per analogia, per fortuna o per ragionamento. La scuola ridotta a quiz... divertimento spacciato per metodo di insegnamento. Tutto ciò è veramente preoccupante pensando al futuro dei nostri allievi che si troveranno sempre più spaesati quando dovranno veramente affrontare la disciplina in tutto il suo spessore.
Che fare? Il primo atto dovrebbe essere una presa di posizione da parte di chi ha l'autorevolezza e la competenza per farlo (Università, Invalsi, Indire...). Ma questo evidentemente non può bastare. Occorre andare alla radice del problema, alla formazione degli insegnanti, perché secondo me è un fatto culturale. È la cultura degli insegnanti che va coltivata: con un bonus di 500 euro o con una formazione obbligatoria a tappeto su tutto il territorio nazionale? Ci sono gruppi di insegnanti che hanno deciso di investire una parte del bonus per autofinanziarsi corsi di aggiornamento che la scuola non riesce più ad offrire. Brave ... ma come ci siamo ridotti?
Sappiamo che soprattutto nella scuola primaria, dove le menti degli allievi vengono in un certo senso forgiate, si ricorre a ogni sorta di strumento reperibile in commercio o in rete per avere materiali sempre nuovi e 'accattivanti' da proporre agli allievi. Dietro queste pratiche c'è la mancanza di sicurezza nell'affrontare la disciplina e dall'altra la necessità di far fronte in qualche modo alle crescenti difficoltà degli allievi in classi sempre più variegate con famiglie sempre più esigenti. Riempire i quaderni di schede o seguire metodi miracolosi che offrono risultati immediati (ma di che tipo?) sembra un ottimo antidoto alla situazione di stress che vivono quotidianamente gli insegnanti.
E se invece ci si occupasse seriamente del problema offrendo agli insegnanti strumenti veri per affrontare le difficoltà e cioè quel minimo di competenza disciplinare e metodologica che consentirebbe di vivere serenamente la matematica a scuola?
E se gli insegnanti imparassero ad ascoltare veramente gli allievi per cogliere dalle loro parole ciò che c'è nelle loro menti e aiutarli a raggiungere le competenze indispensabili per essere cittadini consapevoli?
Il discorso è complesso e nessuno ha delle soluzioni in tasca. Ma chi ha responsabilità nella scuola, i dirigenti, si pongono il problema di verificare la validità delle proposte formative, hanno strumenti per valutare o si basano sulla pubblicità?
L'assenza delle istituzioni culturali, in tutte le sue articolazioni, comincia veramente a pesare....
Fare scuola facendo attenzione a come si formano i concetti matematici nella testa degli allievi può essere inizialmente più faticoso perché costringe ad abbandonare strade battute e quindi destabilizza, obbliga a riprendere in mano i libri di matematica per studiare.... Per fortuna ci sono insegnanti che capiscono e si impegnano per farlo... ancora troppo pochi.

martedì 13 ottobre 2015

Una scuola diversa non solo negli spazi

Sono capitata qui...
http://ischool.startupitalia.eu/38542/education/scuola-ideale-renzo-piano/
Che bell'utopia quella espressa da Renzo Piano. Chissà perchè mi ricorda tanto la mia tesi... "Scuola e territorio" discussa nell'84... tanti bei progetti di scuole realizzati in tutto il mondo raccolti in 400 pagine con l'idea di suggerire un'integrazione tra scuola e comunità locale... ho ancora tutti i progetti che avevo pensato anche per la mia città... tutto ciò mi riconcilia con l'architettura e mi fa sperare in qualche cambiamento almeno per i miei nipotini. Sono tante le voci che ho sentito ultimamente sul fatto di creare ambienti scuola molto diversi da quelli attuali, ma poi, anche scuole nuovissime ripropongono il solito modello caserma con tante aule e tanti corridoi in cui gli insegnanti fanno fatica a organizzare spazi a misura di bambino. E la mia ultima scuola che aveva già negli anni '70 alcune caratteristiche particolari che andavano, se volete, nella direzione descritta da Piano (aule che si affacciavano da un lato sul cortile e dall'altro su un grande spazio comune) sta per essere abbattuta... Ma quel che mi chiedo io: basta avere una scuola diversa per cambiare la didattica? Forse no, ma aiuterebbe tanto...  Ricordo con grande commozione i miei piccoli primini seduti per terra stretti stretti in cerchio nella piccola auletta laboratorio collegata con l'aula grande a discutere di numeri e di chiocciole raccolte in cortile, il nostro orto pieno di verdure bacate... il tavolone comprato con i soldi dei genitori per poter lavorare in cortile vicino all'orto.... chissà che fine ha fatto?
È vero che gli insegnanti si sono sempre aggiustati quando volevano e lo fanno tuttora, ma è anche vero che spesso, pur avendo scuole bellissime, hanno preferito restare chiusi nelle loro aule a fare lezione. Ho letto l'articolo sulla nuova didattica senza materie che ci arriva dalla Finlandia e chissà perchè l'ho subito collegato alla battuta di una insegnante di matematica di scuola superiore incontrata qualche anno fa che alla mia richiesta di far mettere per scritto ai suoi allievi il ragionamento fatto per risolvere un problema mi ha risposto dicendo che non poteva, perchè non insegnava italiano... Se siamo fatti cosí... la strada per l'utopia è ancora molto lunga.

martedì 29 settembre 2015

Vogliamo ancora fare l'insiemistica?

Vorrei spendere due parole sull'insiemistica sollecitata da un post su Facebook.
Il discorso sarebbe lungo e forse lo riprenderò perchè scrivere mi serve sempre anche per chiarire a me stessa le cose che so... o credo di sapere.

I bambini quando arrivano a scuola hanno già un sacco di competenze sui numeri, Karen Fuson ha speso molto tempo a cercare di capire come si evolvessero nel tempo le loro conoscenze e ha costruito dei modelli che mi sembrano molto utili per un'insegnante. Ha fatto un diario di bordo di ciò che facevano e dicevano le sue figliolette Adrienne e Erica rispetto ai numeri da quando avevano poco più di un anno fino a 5-6 anni. Si rifaceva anche lei agli studi di Gelman e Gallistel che sono della fine degli anni '70 (The child's understanding of number è del 1978) seguiti da molti altri (ad es. per citare quelli che ho qui sottomano - grazie Maria!-  Steffe, von Glaserfeld, Richards e Cobb con 'Children Counting Types' sulla costruzione del concetto di unità è dell'83...) e poi tutti i ricercatori delle neuroscienze... la lista sarebbe molto lunga... 
Ciò che mi pare incredibile è come queste ricerche e queste nuove conoscenze su come i bambini apprendono i numeri siano ancora sconosciute alla stragrande maggioranza degli insegnanti. Lo verifico ogni volta che inizio un corso di formazione... nessuno sa che cosa sia successo dopo Piaget... dei 5 principi di conteggio di Gelman e Gallistel non c'è traccia da nessuna parte, ancora stiamo lì a far fare le classificazioni perchè sennò non si arriva ai numeri... sarebbe bene cominciare a farsi delle domande. 
Basta peraltro ascoltare i bambini, chiedere loro che cosa sanno dei numeri, vedere come li usano e quando li usano... stupirete... ho decine di interviste fatte dagli insegnanti alle loro classi. 
Vi consiglio anche un libro che ho visto quest'estate di Francesco Paoli edito da Carocci e dedicato agli insegnanti in formazione "Didattica della matematica: dai tre agli undici anni". Non l'ho ancora letto tutto ma mi sembra che almeno per informare sullo stato attuale delle ricerche sia molto utile. Se lo legge qualcun altro ne possiamo poi discutere.

domenica 27 settembre 2015

500 euro per fare che?


Nessuno mette più in dubbio che gli insegnanti abbiano bisogno di riappropriarsi della cultura e abbiano, per farlo, bisogno di soldi. Ma i 500 euro che il governo ha decretato, vanno in questa direzione e possono risolvere qualche problema? Dipende…

Personalmente non penso che se avessi 500 euro in tasca in questo momento darei la priorità della cultura… mi servirebbero sicuramente per altro. Essendo pensionata non li riceverò e quindi inutile farci dei pensieri sopra ma, visto che mi occupo di formazione degli insegnanti, ho comunque un mio punto di vista.
Sicuramente la cultura non è qualcosa che si compra come un pacchetto… è qualcosa che si costruisce nel tempo con le nostre pratiche quotidiane, con il nostro stile di vita, con le nostre priorità…
Ho provato quindi ad immaginare che cosa potrebbe cambiare con quei 500 euro per gli insegnanti con cui di solito mi relaziono… sempre dal mio punto di vista.

La prima cosa che mi viene da dire è che se la scuola ha bisogno di cultura è perché attualmente non è più essa stessa un ’baluardo’ della cultura come poteva essere un tempo. Ora l’accesso alla cultura avviene attraverso altre strade e altre pratiche.
Andare a teatro o al cinema, frequentare i musei, come ho già detto, fanno parte dello stile di vita di una persona, se lo stile è diverso, anche con i soldi in mano non si comincia all’oggi al domani a cercare la ‘cultura’.
Mi pare che quest’anno i 500 euro si possano spendere come si vuole perché non occorre una rendicontazione. Quindi penso che finiranno sul conto corrente e entreranno a far parte del budget della famiglia, serviranno a pagare la TARI e la TASI, a compare i libri per i figli, ad acquistare qualche bel vestitino (gli insegnanti devono pur presentarsi a scuola con un certo decoro!). Quindi divisi per 12 sono poco più di 40 euro al mese, un piccolo aumento di stipendio che in ogni caso fa comodo.
Cosa succederà in futuro non riesco ad immaginarlo.
Sarebbe già un successo se qualche insegnante li spendesse, almeno in parte, per comprare libri.

La seconda cosa è la formazione, non la ‘cultura’ generica ma quella necessaria per far andare avanti la scuola, per renderla adeguata ai tempi e agli allievi. Proprio perché me ne occupo da tempo e so quali siano i bisogni reali in tal senso, penso che gli stessi soldi dati alle scuole per creare occasioni di formazione per gli insegnanti avrebbero prodotto risultati migliori e soprattutto risultati ‘monitorabili’. In diverse situazioni in cui opero le scuole fanno fatica a reperire i fondi per pagare gli esperti e per incentivare gli insegnanti che si occupano di questo settore. Formare reti di scuole per raggranellare più soldi è diventata una pratica comune ed è giusto che sia così, perché le risorse vanno allocate bene, non si può più ragionare su progetti scuola per scuola. Ma anche le reti finiscono e i fondi sono sempre più o meno gli stessi o, più frequentemente, meno dell’anno precedente.

La terza cosa riguarda il modo. Non penso che dare soldi ai singoli produca qualche risultato, anche per i motivi che ho detto prima. Aumentare la cultura degli insegnanti è un obiettivo che il governo si deve porre ragionando sul sistema. Se gli insegnanti non sono obbligati ad una formazione continua, che per lo meno li metterebbe in pari con la cultura pedagogica e didattica attuale, che cosa può produrre questo piccolo incentivo? Negli ultimi 30 anni la ricerca ha fatto dei passi avanti notevoli sia per le scoperte nel campo delle neuroscienze, che hanno modificato il modo di guardare al processo di apprendimento, sia per i progressi nella ricerca didattica, che però rimane confinata al livello accademico e non riesce mai a raggiungere in modo significativo la base insegnante.
La mancanza di formazione secondo me produce molti danni che non si possono risolvere mettendo etichette agli allievi che non imparano, cosa che già ha una dubbia utilità nel breve periodo ma sicuramente non genera automaticamente risultati né a breve né a lungo termine. L’unica cosa che generano le etichette è una distorsione dei problemi.
Bisogna dare agli insegnanti strumenti di lavoro, offrire soluzioni e risorse che agiscano sul lungo periodo. La formazione potrebbe andare in questa direzione se non fosse gestita come ora ma fosse inserita in modo strutturale nel sistema educativo.

In una situazione di carenza di risorse, la scelta del governo, dettata unicamente da disegni politici che ognuno di noi non fa fatica ad immaginare, è senza ombra di dubbio uno spreco che non produrrà, secondo me, nessun cambiamento.
Vorrei sbagliarmi… perché ho fiducia negli insegnanti e nel loro senso etico, so che molti danno tempo e risorse personali per potere migliorare il loro modo di insegnare anche senza i 500 euro, ma in una situazione generale così problematica una soluzione individualista non mi sembra il modo giusto per risolvere un problema che investe tutto il sistema dell’istruzione e che quindi andrebbe affrontato come tale.

venerdì 5 dicembre 2014

Sull'inclusione

Proseguo la mia riflessione iniziata con il post Bisogni educativi normali di circa un anno fa.

Riguardando tutti i materiali che ho ricevuto ultimamente dagli insegnanti con cui conduco corsi di formazione di matematica, ripensando complessivamente ai percorsi che stanno facendo, mi pare di cogliere la difficoltà a lasciar agire i bambini da soli ponendo dei problemi relativi all’argomento di studio, problemi che siano in grado di affrontare ma di cui non possano vedere una soluzione immediata.
Si preferisce, perché pare più facile, condurre un’attività collettivamente e poi in un secondo tempo dare il compito come verifica della comprensione. Questa modalità, molto diffusa, secondo me nega inclusione fin dall’inizio. Dà l’illusione di risparmiare tempo perché ovviamente se è l’insegnante a condurre il gioco, i bambini vanno dove lei vuole e questo è anche molto gratificante per l’insegnante perché offre un’ulteriore illusione, quella di essere seguiti dai bambini … perché i più bravi rispondono sempre ma si taglia già in partenza una bella fetta della classe (e se ne è consapevoli, questo è il peggio!).

Mi spiego meglio.

Per aiutare i Bambini In Difficoltà (che poi sono tutti i bambini in qualche occasione):
-dobbiamo avere un’idea delle concettualizzazioni che hanno veramente cioè di ciò che hanno acquisito come strumento concettuale perché ne fanno uso per costruire dei ragionamenti;
-nello stesso tempo ci serve capire quali sono i meccanismi per cui ad un certo punto tutto si inceppa e i bambini, non tutti ma soprattutto quelli che vogliamo includere, non capiscono più.

Ci manca sempre il punto di partenza reale. Dove dobbiamo raccoglierli questi BID?

Per cominciare, provo a sfatare i due miti di cui sopra, il primo è il più facile…

Se faccio il lavoro collettivo risparmio tempo: non è vero, perché poi, siccome metà della classe è rimasta fuori dal discorso, bisogna riprendere più volte le stesse cose e quindi, alla fine, si perde un sacco di tempo.

Ci sono arrivati i bambini: non è vero, ci sono arrivati alcuni bambini … e tutti gli altri? per onestà si dovrebbe dire: c’è arrivata la maestra con alcuni (pochi) bambini… gli altri? Non sono stati attenti e quindi vanno redarguiti.

Ci siamo mai chiesti qual è il clima che si crea in classe con questo comportamento? La frattura è evidente.

Che fare per superare questo modo di fare?

Secondo me occorre ribaltare il discorso. Non avere paura di lasciar fare le cose ai bambini come le sanno fare. Anzi partire sempre da quello che sanno fare per poter poi cercare le strade più idonee a portarli avanti. Se si fa sempre così è quasi impossibile lasciare indietro qualcuno o per lo meno si è sempre coscienti del punto a cui ciascuno di loro è arrivato per poterlo riprendere a parte da lì, differenziando quando è necessario ma offrendo spazi di costruzione di idee per tutti.

Ritorno al discorso iniziale per arrivare ai problemi partendo però da una considerazione che si colloca fuori dal nostro contesto.
Ho letto tempo fa il libro di Paul Le Bohec ‘Il testo libero di matematica’. Chi conosce Le Boech sa che è un maestro francese, mancato alcuni anni fa, che si rifà a Freinet e quindi il termine ‘testo libero’ ci sta.
Mentre lo leggevo pensavo (e lo penso ancora adesso): “Bellissime cose… ma per fare questo lavoro occorre essere dei geni della matematica!”
Le Boech era capace di estrapolare da ciò che producevano ‘liberamente’ i bambini i contenuti matematici che servivano a sviluppare un discorso coerente e produttivo dal punto di vista dell’apprendimento. Senza entrare nel merito delle produzioni matematiche ‘libere’ dei suoi allievi, posso dire che nel suo metodo c’è una certa consonanza con il discorso sull’inclusione che sto cercando di elaborare a partire da una riflessione sulle realtà scolastiche con cui vengo a contatto quotidianamente.
Un elemento importante è sicuramente il partire da ciò che producono i bambini e dalla fiducia che quei prodotti comunque possano portare a costruire qualcosa di importante.
Questo secondo me vuol dire rispettare i bambini e le loro capacità mentali per limitate che possano essere.
Questa è la lezione che lui ci può dare ed è valida per sempre.

Ciò che per Le Boech era spontaneo perché amava e conosceva bene la matematica, nell’insegnante ‘comune’ deve essere costruito.
Proviamo a pensare a qualche scenario.

Immaginiamo che un giorno un insegnante arrivi a scuola e ponga ai bambini un problema semplice ma abbastanza intrigante, una specie di sfida.
Come reagiranno i bambini? Ci staranno? Che tipo di azione potrebbero intraprendere? La curiosità dell’insegnante è un aspetto fondamentale.

I bambini fanno e disfano, si arrabattano a cercare materiali e strumenti, tirano fuori tutte le conoscenza che hanno con uno scopo… alla fine hanno i loro prodotti e li consegnano all’insegnante.
Che cosa ne fa l’insegnante? Li guarda e separa giusto da sbagliato? Direi proprio di no…
Prende tutto e cerca di capire dove sono gli allievi, non tutti complessivamente, ma ognuno di loro, cerca di risalire alle idee contenute anche nelle cose più ‘sbagliate’, assume un atteggiamento positivo, cerca di valorizzare ogni minimo contributo al percorso di costruzione conoscenza collettiva che ha avviato ponendo quel problema.

Ecco il momento successivo… ritornare alla classe… discutere tutti insieme di ciò che è successo, individuare modalità diverse di affrontare lo stesso problema e vedere ciascuna dove ha portato.
Alla fine si arriva ad una presa di coscienza di ciò che si è imparato tenendo conto che non tutti saranno arrivati allo stesso punto ma ci arriveranno perché il gioco continua… è un ciclo che si ripete e genera una storia dell’imparare a scuola che non ha mai fine, una mia amica matematica la chiama ‘la storia infinita’.
Se gli insegnanti prendessero coscienza della possibilità di cominciare scrivere con i loro allievi questa ‘storia infinita’, della bellezza e della gratificazione che porta con sé, non avrebbero bisogno di altro. La loro soddisfazione si tradurrebbe in un totale cambio di atteggiamento nei confronti della classe e in un cambiamento complessivo del clima dell’ambiente in cui ogni giorno i nostri bambini per tante ore si trovano a vivere.

venerdì 19 settembre 2014

Mce in avanti...

Pubblicazione di Emma Ericsson.

La Ridef, grande momento comune... che cosa ci ha lasciato? Tanta voglia di fare e di comunicare. Ci aiuta un blog, un sito? è quel che vogliamo sperimentare lavorando tutti insieme ad un sito più muovo, più interattivo, luogo di incontro per tutto il Movimento.