giovedì 20 dicembre 2018

I bambini e i numeri

Pubblico qui la mappa di Karen Fuson sull'uso delle parole-numero dei bambini. Nei miei corsi sul numero vi faccio spesso riferimento e quindi tempo fa ho chiesto a un'insegnante di scuola dell'infanzia di tradurla. Sono stata accontentata... L'insegnante si chiama Stefania Di Benedetto e insegna a Tarcento dove da diversi anni con Anna Aiolfi portiamo avanti un percorso formativo sulla matematica che ha fatto cambiare molto il modo di approcciarsi al numero di questi insegnanti di scuola dell'infanzia. L'anno scorso abbiamo concluso il lavoro con un convegno a Udine dove gli insegnanti hanno potuto raccontare le loro esperienze didattiche dell'ultimo anno nel corso "Non è solo questione di numeri".


La mappa ci mostra come sia ricca la conoscenza numerica dei bambini già a pochi anni di età e come si sviluppi in seguito. Inizialmente i diversi aspetti sono contestualizzati e quindi legati ad esperienze concrete, farli diventare conoscenze matematiche astratte applicabili a qualsiasi situazione è compito della scuola che dovrebbe mettere in evidenza le connessioni tra i diversi significati e la differenza tra i vari insiemi numerici che utilizziamo nella vita di ogni giorno (naturali, razionali, reali...). Un discorso da approfondire.

lunedì 8 ottobre 2018

La casetta: consigli per l'uso



Riporto qui una serie di riflessioni sull'attività della casetta da proporre in classe prima (e volendo già nella scuola dell'infanzia) finalizzata a due obiettivi importanti del curriculum di geometria: la strutturazione dello spazio facendo riempimento al proprio corpo e il riconoscimento delle forme che costituiscono la struttura di un solido simile ad un poliedro.

L'attività è presente fra le attività di Matematica 2001 nella parte relativa al nucleo "Spazio e figure".
Qui trovate anche la mappa con una proposta concreta per organizzare le attività in classe.



"La casetta"  ovvero   "Come gestire il rapporto con gli oggetti esterni"

In prima elementare le attività sullo spazio non possono prescindere dalle problematiche relative alla padronanza dello schema corporeo, ma non bisogna nemmeno pensare che le difficoltà siano risolte tutte in questa classe. Vediamo le cose con ordine.

Già alla scuola materna viene suggerito un lavoro-gioco in cui i bambini si rapportano con una casetta che può essere 'vissuta' perché costruita a loro misura. Ciò permette una relazione oggetto-persona che fa risaltare e rendere espliciti molti più o meno consci concetti di oggettivazione della realtà a partire dal riferimento alle parti del proprio corpo per individuare quelle della casetta che viene quindi, in un certo senso, personificata. Questo processo di trasferimento dei riferimenti spaziali dal corpo agli oggetti continua anche alla scuola primaria in modo particolare per la coppia destra/sinistra. Il problema di distinguere le due parti persiste per molti bambini fin verso gli otto anni. Inizialmente essi hanno un senso della destra e della sinistra per così dire 'locale', collegato con l'uso delle mani, non riconoscono una parte destra e sinistra del loro corpo come parti simmetriche se non facendo riferimento alla zona in cui agisce la mano destra o sinistra, lo si capisce anche dai gesti che fanno. Ad esempio possono indicare una svolta a sinistra con la mano destra e dire che si svolta a destra.

La casetta è un oggetto esterno costruito a misura del bambino che può quindi viverlo sia dall'esterno che dall'interno, ha un suo 'davanti' e quindi su di essa i bambini possono proiettare in primo luogo il proprio 'davanti' e poi tutto il proprio schema corporeo; se vanno dentro la casetta e guardano la porta, cioè il davanti della casetta, e poi dalle finestre laterali fanno uscire le loro braccia, i due schemi combaciano. Anche la casetta ha un davanti, un dietro, una sinistra e una destra, un sopra e un sotto (da non confondere con alto/basso), non rispetto a chi guarda, ma rispetto a se stessa. I cartellini che si possono mettere sul corpo del bambino per traslazione vanno anche a finire sulla casetta, se il bambino si orienta come abbiamo detto prima.

Quando il bambino guarda la casetta da fuori mentalmente deve ricostruire questo trasferimento per ritrovare le sei parti; quindi o assume lo stesso orientamento della casetta o, se si mette di fronte, compie mentalmente una rotazione per collocare destra e sinistra al posto giusto. È la stessa operazione che si deve fare per riconoscere la destra e la sinistra del compagno che sta di fronte. Essendo la casetta un oggetto in cui si può materialmente entrare per fare questo accoppiamento tra le parti del corpo e quelle dell'oggetto, diventa poi più semplice capire la rotazione quando ci si trova all'esterno.

Mentre eseguono questo lavoro i bambini imparano anche a distinguere destra e sinistra su di sé usando vari accorgimenti: la mano con cui operano di solito per scrivere, mangiare ecc. è la destra (se non sono mancini), quindi cominciano mentalmente a fare riferimento a queste azioni per ricordare.

Emergono le forme

L'attività con la casetta, però, non permette solamente di sviluppare il discorso dello schema corporeo e del suo trasferimento sugli oggetti e, d'altra parte, non tutti gli oggetti hanno un orientamento riconoscibile come la casetta. Per comprendere e descrivere la realtà si deve entrare dentro la geometria e cominciare a parlare di forme.

Fin dalla scuola materna, i bambini, nel momento in cui osservano e rappresentano la casetta sono quasi indotti dall’insegnante a fare discorsi di forma perché l'oggetto che hanno davanti è generalmente un poliedro con facce piane: che forma hanno le sei parti della casetta? come faccio a riconoscerle? che caratteristiche hanno? sono uguali fra di loro? Molto probabile quindi che i bambini parlino spontaneamente di rettangoli, triangoli, quadrati... forme di cui conoscono il nome e le caratteristiche percettive più evidenti: queste sono espresse con un linguaggio derivante dal confronto di grandezze (più lungo di, più corto di, più grande di, più piccolo di), dalla presenza di 'punte', dalla linearità dei bordi che possono percorrere con un dito per distinguere le varie parti segnandone i confini visibili. Danno quindi l’impressione di avere già competenze ‘geometriche’.

Il passaggio vero alla geometria però avviene solo quando si collega il piano percettivo con quello concettuale, nel momento in cui si riescono ad astrarre le forme di quadrato, rettangolo... non in quanto 'oggetti concreti' ma in quanto immagini mentali che possano essere condivise da tutti. L'immagine riprodotta nella mente perde la consistenza dell'oggetto ma mantiene la struttura e le relazioni fra le parti, in queste immagini ci sono degli invarianti da astrarre: le proprietà di quadrato, rettangolo ecc. lati uguali e non uguali, angoli retti, simmetrie e non simmetrie...

Gli insegnanti di solito, nel momento in cui gli allievi introducono una terminologia che richiama il confronto di grandezze, indirizzano il discorso verso la misura trascurando gli aspetti geometrici del problema che potrebbero svilupparsi spontaneamente da una semplice riflessione sulle azioni che si compiono per disegnare o per ricostruire la casetta con un cartoncino. I bambini infatti, a fronte di queste richieste, si ingegnano a ‘far combaciare’ parti per incollarle, a 'sovrapporre’ forme ritagliate per farle 'uguali', compiono di fatto dei ‘trasporti rigidi’. Sotto il trasporto rigido c'è l'idea di congruenza che può essere il vero punto di partenza per fare geometria anche nelle prime classi della scuola primaria. Mettere in luce le trasformazioni geometriche incorporate in gesti comuni, non solo le isometrie (simmetria, rotazione, traslazione) ma anche le similitudini, costituisce la base di una importante presa di coscienza.

L'attività con la casetta ci offre il contesto adatto per capire a che punto stanno gli allievi rispetto a molti concetti geometrici, in particolare rispetto a quelle ‘forme’ che accostano ad un ‘nome’ e che ben difficilmente hanno concettualizzato con tutte le loro proprietà.

Potrebbe essere questo il lavoro da sviluppare nella scuola primaria quando si chiede agli allievi di ricostruire la casetta a partire, appunto, dalle forme che la costituiscono. È probabile che mettendo insieme quadrati, rettangoli, triangoli arrivino anche a vederne lo sviluppo piano …. e allora entrino davvero nella geometria.

La casetta disegnata

La rappresentazione con il disegno offre altri spunti interessanti.

Come riprodurre su un piano una forma tridimensionale? Quali problemi devono affrontare i bambini? Quali strumenti concettuali hanno a disposizione per farlo?

A quest’età è difficile che il disegno sia una riproduzione perfetta di ciò che vedono, ammettendo che abbiano gli strumenti per farlo. La richiesta di disegnare la casetta però può essere meno generica se si chiede loro di fare un disegno che faccia capire bene come è fatta. Avendo sviluppato precedentemente il discorso delle forme è possibile che i bambini cerchino delle strategie per far vedere anche ciò che da un unico punto di vista non sarebbe visibile. Un po’ alla Picasso e un po’ per imitazione di immagini viste.

Di solito alcuni disegnano le quattro pareti ribaltate o raggruppate sotto un tetto unico per farle stare tutte, altri le fanno tutte separate senza badare alle congruenze, altri invece tentano già di ‘svilupparle’ sul piano. Dal confronto fra le diverse rappresentazioni nascono molte discussioni e tutti insieme si cerca di trovare un modo chiaro per comunicare come è fatta la casetta in modo che altri possano riprodurla.

I disegni possono anche esser ritagliati e ricostruendo la tridimensionalità ci si accorge degli errori: manca una parte, non c’è il pavimento, la destra non si attacca bene al davanti... nascono le domande e si cercano le soluzioni.

Alla fine i bambini son pronti per produrre una ricetta che consenta di costruire ‘bene’ la casetta.

La casetta con GeoGebra

Il modo più semplice per introdurre GeoGebra con bambini molto piccoli è chiedere loro di fare un disegno. In questo modo con poche istruzioni date dall’insegnante i bambini riescono a fare punti, unirli con segmenti, costruire poligoni e cerchi. Ma usare GeoGebra non è come usare un programma di disegno.

I disegni della casetta fatti con GeoGebra hanno una caratteristica fondamentale: trascinando i punti la casetta cambia, non è più la stessa, si trasforma in infinite casette diverse. Cosa rimane allora del disegno iniziale? I punti e i segmenti, le forme. Ma i punti si spostano, i segmenti si allungano e si accorciano, le forme si modificano un po’.

Come comunicare questi cambiamenti?

Diventa importante costruire un linguaggio comune per spiegare che cosa è successo e in modo molto naturale si incominciano ad usare alcune parole della geometria che fanno anche parte del linguaggio comune, ma in questa fase sono puri nomi, dietro non ci sono ancora vere concettualizzazioni.

“Ho spostato questo punto e il tetto è diventato più alto.”

“La parete è diventata più lunga perché questa linea è come un elastico... ma ora non è più un rettangolo, ha una forma strana.”

“Però il mio tetto è sempre fatto da tre linee.”

Piano piano emergono anche i primi invarianti: i triangoli restano triangoli anche se allungo e accorcio i loro lati. Più difficile dire che cosa succede ai quadrilateri, anche perché questa parola non fa parte del vocabolario comune dei bambini. Si può dire che la parete aveva una forma rettangolare e che spostando un punto non è più tale. Ma forse non lo era nemmeno prima perché per ‘essere rettangolare’ doveva avere certe caratteristiche.

Il discorso delle forme si fa più complesso e nasce l’esigenza di definirle in base a tutte le loro caratteristiche. I tentativi che fanno i bambini con GeoGebra di ‘rettangolizzare’ i quadrilateri sono molto interessanti. Tutto è fatto ad occhio o, se qualcuno scopre lo strumento misura, misura i lati fino a trovare misure uguali dove devono esserlo.

Fatto questo, manca ancora l’angolo retto... per cui bisogna avere in mano la perpendicolarità come ulteriore concetto di base. Se inizialmente si usa la griglia quadrettata non esiste il problema, ma se la griglia scompare e il ‘rettangolo’ non è stato costruito come si deve, basta spostare un punto e la forma si perde.

La griglia offre perpendicolarità e parallelismo in automatico e quindi farebbe bypassare il problema. L’insegnante può sfruttare questo fatto per portare avanti, inizialmente fuori da GeoGebra, tornando quindi alla realtà, i discorsi su angolo retto e rette perpendicolari che sono naturalmente intrecciati.

Per arrivare a costruire veramente le forme i bambini devono possedere qualche concetto geometrico in più. Ma intanto abbiamo evidenziato un problema non da poco: disegnare non è costruire. E questo è il primo problema da affrontare anche con gli adulti che iniziano ad usare GeoGebra. Il test del trascinamento dei punti è uno strumento di controllo che i bambini devono imparare ad usare bene fin dall’inizio.

mercoledì 11 ottobre 2017

Nuovi percorsi formativi

Qualche volta penso che far capire come sia possibile cambiare il modo di fare matematica sia un'impresa impossibile. Preparo interventi teorici, propongo laboratori, seguo le sperimentazioni in classe, commento i lavori che mi mandano gli insegnanti passando a volte ore intere per trovare il modo giusto di dire una cosa... Una fatica immane! Mi chiedo se qualcuno capisce che cosa cerco di fare. Fare formazione in questo modo è veramente complicato. Meglio andare in una scuola, fare una rapida conferenza raccontando cose bellissime ma non replicabili e poi andarsene a casa.
Ma allora che siamo "maestre" a fare? Bisogna trovare la strada, il modo di farsi intendere... ci vuole anche un po' di cocciutaggine.
In ogni caso sono convinta che ci sia qualcosa nel DNA delle persone che consente di entrare in sintonia con un certo modo di fare scuola e "obbliga" in un certo senso a non accettare altre modalità, forse più facili, magari anche più appariscenti, ma sicuramente meno efficaci.
Sull'inefficacia delle attuali pratiche didattiche è facile andare d'accordo. Gli insegnanti delle elementari si lamentano di quelli dell'infanzia, quelli delle medie di quelli delle elementari.... e così via. Mai nessuno che dica: dunque, se gli allievi mi arrivano così che cosa posso fare "io"?
E tutta la prosopopea sul curriculum che nessuno sa come fare, l'accento sulle competenze che nessuno sa cosa siano.... e poi che vorrà mai dire "progettare per competenze", "valutare per competenze"...
Se almeno tra tutti coloro che elaborano meravigliosi curricoli, ci fosse uno che si rende conto dell'inutilità di mettere nero su bianco parole che non hanno nessun significato se dietro non c'è un impegno personale per renderle attuabili ....e avesse anche il coraggio di dirlo.
A che serve fare un curriculum se questo non cambia il modo di fare scuola, se non cambia l'approccio alle discipline, se i contenuti restano immobili, se le pratiche consolidate e gli stereotipi dettano legge nel quotidiano in classe?
Io sono sempre più convinta che sia un problema innanzitutto culturale, solo una persona "colta" può accorgersi veramente dell'incoerenza, dell'inutilità e può avere anche le risorse per opporsi alle soluzioni troppo facili, per ricominciare ogni volta. Ma quale cultura serve?
Limitiamoci anche solo alla disciplina. Se non si conosce la materia non si può nemmeno modificare il modo di insegnarla perché si è obbligati a seguire qualche traccia per non perdersi e quindi cosa c'è di meglio dei metodi prefabbricati, dei libri di testo già scritti, delle guide didattiche, delle riviste con le quindicine? Progettare costa un'immensa fatica e si deve fare giorno dopo giorno. Perché ogni giorno ci sono aggiustamenti da fare, perché gli allievi ci portano da tante parti che bisogna capire e poi in qualche modo governare.
Per non sentire l'obbligo di studiare matematica allora si cercano altre strade: la flipped classroom. Internet sostituisce il maestro. Gli allievi guardano a casa (nemmeno in classe) un filmato su internet che "spiega" le frazioni e poi tornano in classe e "spiegano" a loro volta ai compagni che cosa hanno imparato. Ma vi sembra il modo? Con bambini che per la prima volta entrano in contatto con certi concetti e che hanno una testa tutta da formare?
Forse ho esagerato con l'esempio, ci sono sicuramente dei momenti del lavoro in classe in cui certe metodologie possono dare dei risultati, ma facciamo attenzione a non togliere la lezione cattedratica da una parte per reintrodurla dall'altra, soprattutto non confondiamo il saper ripetere a pappagallo con l'aver compreso. Su questo servirebbe un confronto perché sicuramente ci sono insegnanti che sanno il fatto loro e sanno usare bene anche questi strumenti. Io mi baso su quel che vedo e che sento.  Forse gli insegnanti capaci sono una rarità mentre prolificano coloro che imitano ma senza sapere. Possibile?
Credo che sia la relazione tra le persone e in particolare quella tra maestro e allievo che conti veramente, perché non bisogna solo costruire "concetti" ma anche formare persone consapevoli di averli in testa. Ci accorgiamo spesso che è più ciò che siamo che ciò che sappiamo ad aiutare gli allievi nel costruire degli apprendimenti stabili. Il nostro modo di porci, di curare la relazione.
Indubbiamente più si approfondisce la disciplina meglio si colgono nessi e relazioni tra gli argomenti e quindi andando in classe si riescono a sfruttare gli spunti che offrono gli allievi per costruire con loro le nuove conoscenze. Ma bisogna essere dei Don Milani, dei Lodi, dei Manzi per poterlo fare? Non credo. Forse basta solo un po' più di consapevolezza (e di umiltà) e tanta voglia di mettersi in gioco (nuovamente e per sempre) perché non si finisce mai di imparare. Sapendo già fin dall'inizio che si sbaglierà e che si cadrà molte volte prima di trovare un certo equilibrio.
E poi quando ci sembrerà di aver finalmente capito, ci accorgeremo che dovremo di nuovo ricominciare da capo perché nel frattempo...
Questa però.... è la vita!
Per concludere riporterei qui i "4 passi" che ha elaborato la segreteria del MCE come impegno del Movimento nei confronti del cambiamento nella scuola. Un ritorno indietro per andare avanti, un po' come è successo nel recente convegno UMI di Bari dove abbiamo recuperato dei pezzi della nostra storia passata come insegnanti di matematica per capire il senso da dare a quella attuale.
Ecco i 4 passi:
  1. adottare strumenti di democrazia: assemblea, consigli dei ragazzi, piani di lavoro, giornale di classe
  2. dalla biblioteca di classe al fare scuola senza libri di testo. Come si possono organizzare materiali, strumenti di lavoro, fonti documentarie per una scuola della ricerca?
  3. fare scuola senza voti (e registri elettronici)?
  4. rompere l’unità della classe per formare gruppi misti per classi aperte su abilità di base, di sviluppo e arricchimento

Per me... molti ritorni indietro! Ma anche un ritorno a ciò che ha fatto di noi quello che siamo, alla voglia di andare, quando serve, contro corrente perché ispirati da obiettivi "alti" ma condivisi.
Rimane una perplessità: bastano questi strumenti per cambiare anche il modo di fare matematica? In altre parole: esiste un modo "democratico" di imparare (non solo la matematica, ovviamente)?

venerdì 1 settembre 2017

Ripartenze

Mi  è venuto in mente questo titolo perché il primo di settembre, nonostante il pensionamento - 10 anni che sono volati - questo giorno è anche per me una "ripartenza". Costruisco il mio calendario di attività e rimetto in gioco tutto ciò che ho fatto finora cercando sempre nuove strade per raggiungere i colleghi ancora attivi e condividere con loro esperienze vecchie e nuove, suggerire attività, discutere i problemi che emergono nella vita quotidiana di classe.
Settembre è il mese dei programmi, delle iniziative di "apertura" dell'anno scolastico, dei buoni propositi, dei cambiamenti anche, se vogliamo.
Per riaccendere la passione servirebbero però cose più concrete, risposte chiare anche da parte delle istituzioni. Il piano di formazione degli insegnanti, se ben sfruttato, può offrire spazi di riflessione e rilanciare il cambiamento?

sabato 3 giugno 2017

Cammelli dove?

Cammelli a Barbiana è uno spettacolo teatrale http://www.teatrodilari.it/project/cammelli-a-barbiana/ dedicato all'esperienza di Don Milani che sta girando l'Italia e verrà anche proposto agli ascoltatori di RAI Tre il 26 giugno prossimo. Alcune amiche del MCE che l'hanno visto ne sono rimaste entusiaste e mi hanno contagiata con le loro riflessioni tanto da farmi aprire il blog....
Mi piacerebbe, se qualcuno non lo ha già fatto, provare a ragionare sul presente a partire da quegli stimoli soprattutto sul fatto che quella di Don Milani era una scuola "dura" ma con un obiettivo ben preciso: dare a chi non li aveva gli strumenti per realizzare nella società qualcosa di nuovo. Sono riandata con il pensiero ai miei primi anni di scuola a Nichelino dove la situazione era molto simile per certi versi perché la maggior parte dei genitori dei miei alunni erano semianalfabeti, appena immigrati dal sud e avevano quindi un rispetto per la scuola che stride con ciò che si vede succedere ora nelle relazioni insegnanti-genitori e più in generale scuola-famiglia. Poniamoci allora alcune domande.
La scuola non è più il luogo in cui si fa cultura? Non serve più? O sono gli insegnanti che non sanno più fare il loro mestiere in questa società così frammentata diventata incapace di generare passioni perché tutto è dato, tutto è scontato?
Io sicuramente in quegli anni per molti dei miei genitori ero "depositaria del sapere",  avevo quello che loro non avevano e si fidavano di me, anche quando non capivano bene cosa stavo facendo. I bambini venivano volentieri a scuola tanto che due di loro che i genitori avevano cambiato di classe perché la mia scuola era troppo diversa dalle loro aspettative... l'anno successivo sono ritornati. Anche quando timidamente avevo cercato di parlare di "sesso", cosa a quei tempi inconcepibile, semplicemente per rispondere alle domande dei bambini, hanno criticato subito ma poi si sono ricreduti. Nessuno metteva in dubbio l'onestà degli insegnanti, il loro sforzo di fare una scuola vicina alle esigenze dei bambini, la loro passione che poteva a volte generare conflitti ma non impediva di andare avanti, di trovare soluzioni tutti insieme. Ed è la seconda volta che parlo di "passione". Quella era la nostra forza, forse.
Nulla era facile per chi tentava strade diverse ma nonostante questo non cercavamo di omologarci. Ora la paura del confronto con la diversità è talmente tanta che la scuola è diventata il luogo dell'omologazione. So di un collegio docenti che ha votato la scelta di un metodo.. ma si può fare? Anche se la libertà di insegnamento può avere fatto dei danni, vi sembra una cosa accettabile?
Ora si deve fare tutti nello stesso modo, non importa se sia sbagliato, tutti gli allievi devono avere la stessa scuola, non importa la qualità purché la controparte (i genitori) non possa fare dei confronti tra una classe e l'altra (cosa che comunque tutti continuano a fare perché a fare la scuola sono comunque delle persone...). 
Ora chi decide come si fa scuola non sono più gli insegnanti è l'apparato perché nessuno si fida più di loro, nemmeno il datore di lavoro... lo stato. Siccome non si fida, deve dare regole, riempire il tempo degli insegnanti di corsi che nulla hanno a che vedere con il loro ruolo istituzionale e servono a mascherare l'incapacità di gestire realmente il sistema-scuola in questa società.
Questa perdita di "potere" degli insegnanti è secondo me un segno della perdita di credibilità generata dal fatto che apparentemente non esiste più il divario che c'era un tempo tra chi insegna e chi usa il servizio. La cultura di base "enciclopedica" degli insegnanti della scuola dell'obbligo è ormai del tutto insufficiente rispetto a quella accessibile a tutti tramite i nuovi mezzi di diffusione. 
La cultura disciplinare e pedagogica essendo rimasta quasi la stessa si rivela ogni giorno più inadeguata. Non parlo di casi particolari o isole felici dove sembra che si siano trovate miracolose soluzioni (ma saranno poi tali?) ma di quello c'è nella maggior parte delle situazioni che ho conosciuto. Non è possibile che al giorno d'oggi, quando si fa un corso di aggiornamento, si debba fare attenzione a non alzare troppo il livello, rinunciando a chiamare le cose con il loro nome, perché gli insegnanti altrimenti si spaventano... eppure succede questo. 
Una volta se non si sapeva, si studiava, i miei primi anni li ho passati tutti con i libri in mano perché proprio facendo scuola mi sentivo sempre ignorante, non abbastanza preparata, nonostante avessi alunni di pochi anni, perché volevo dare loro la cultura migliore. E questa consapevolezza di non sapere tutto e soprattutto di non sapere una volta per tutte ma di dover continuare a studiare mi è rimasta fino alla fine. 
E ancora adesso studio... per poter dare, agli insegnanti che capiscono, che si rendono conto della loro inadeguatezza di fronte alle sfide attuali, il meglio. E che cosa spaventa? Le cose che io ho studiato fin dagli inizi della mia carriera e che incredibilmente ancora oggi nessuno sa (guai ad esempio a parlare di isomorfismo o di classi di equivalenza... che paura!!!).
Tornando a Don Milani devo premettere che le celebrazioni che non portano da nessuna parte non mi piacciono. Accanto alle celebrazioni bisogna mettere in campo delle azioni concrete altrimenti non abbiamo veramente raccolto l'eredità di questo e altri maestri che continuiamo a citare. Anche lui proveniva da una famiglia acculturata e quindi coglieva il divario tra la sua cultura e quelle dei suoi allievi. E allora che ha fatto? Ha messo al servizio dei suoi allievi quella cultura, cercando di far loro entrare in testa le cose che creavano il divario fra loro e gli altri, per restituire a loro il "potere" generato dalla cultura.
Allora perché non raccogliere fino in fondo la sfida del donmilanismo andando contro corrente, andando a cercare l'essenza del suo messaggio con una rilettura di "Lettera a una professoressa" da cui trarre spunti concreti per il cambiamento ma calati nella realtà attuale, non sicuramente più facile di quella in cui Don Milani si è trovato a "combattere" pagandone di persona le conseguenze. Ma lui non è stato un martire, o almeno non ha avuto la consapevolezza di poterlo diventare, è stato uno che si è tirato su le maniche contrastando a modo suo, con le sue capacità e i suoi modi, certamente molto più duri di quelli che osiamo ora mettere in pratica, l'omologazione della scuola pubblica fatta per chi la cultura ce l'aveva già a casa e quindi non aveva bisogno della scuola per costruirsela.
Paradossalmente sono le nuove situazioni di disagio che si vivono nella scuola che dovrebbero ridarci il "potere" (e la passione?) di un tempo cominciando con il rifiutare la catalogazione degli allievi non solo con l'eliminazione dei voti ma soprattutto con l'eliminazione dell'etichetta BES a tutti coloro che non stanno nei tempi della scuola perché manca loro quel retroterra che fa la differenza. Il retroterra oggi però non è solo una generica deprivazione culturale... sono anche altre cose, sono ad esempio le difficoltà economiche generate dalla mancanza di lavoro che toccano tutti indipendentemente dal livello culturale o semplicemente l'instabilità del futuro che non si riesce più a prevedere perché tutto cambia continuamente. Che strumenti ha la scuola e che strumenti hanno gli insegnanti per gestire questa situazione del tutto nuova? Pensiamoci e rileggiamo Don Milani... ma dimentichiamoci di lui quanto prima per entrare nei problemi attuali che sono profondamente diversi. Chi sono oggi i cammelli e qual è la cruna? Fare una scuola "dura" oggi che cosa significa?

martedì 9 maggio 2017

Learning spaces vs scuole tradizionali

Ho letto dei nuovi progetti Indire sui learning spaces qui http://ischool.startupitalia.eu/lifestyle/59533-20170509-basta-con-la-lezione-frontale-indire-presenta-la-sua-ricerca-e-lancia-lappello-architetti-e-maestri-unitevi
Secondo me prima di cambiare le scuole bisogna cambiare la didattica e quindi gli insegnanti altrimenti si rischia di avere delle belle scuole dove si fanno sempre le stesse cose nello stesso modo. La LIM insegna.
Avevo già espresso il mio parere sul problema degli spazi della scuola in un mio post precedente che vi invito a rileggere... per non ripetermi
http://ilpiaceredifarematematica.blogspot.com/2015/10/una-scuola-diversa-non-solo-negli-spazi.html
a commento di un articolo sullo stesso sito.
Spero che ora l'impegno dell'Indire sui due fronti, didattica e ambienti di apprendimento, dia qualche risultato tangibile e soprattutto che almeno i miei pronipoti possano giovarsene. I nipoti sono ancora nel limbo... scuole con aule a porte più o meno chiuse, nonostante la buona volontà degli insegnanti.