sabato 17 dicembre 2016

Tecniche…. e tecniche Freinet

Sono molto preoccupata dalla “contaminazione” tra tecniche Freinet e altre “tecniche” che stanno dilagando anche grazie alla rete a cui non sono estranei nemmeno coloro che aderiscono al Movimento di Cooperazione Educativa di cui anch'io faccio parte. Pur sforzandomi di non avere preconcetti, essendomi da sempre occupata di matematica, non posso che rilevare la pericolosità di certi tipi di approccio a questa disciplina. Ma, al di là della matematica, ciò che mi fa pensare è come possano convivere le idee pedagogiche del MCE con metodi che di fatto le negano quasi tutte. Le scelte dipendono dalla conoscenza e dalla riflessione personale e non tutti hanno avuto le stesse esperienze formative. Quindi cercherò di spiegare le ragioni della mia preoccupazione avendo piena coscienza del fatto che i bambini sono nelle nostre mani, non solo come corpo ma anche come “testa” e costruire una “testa ben fatta” non è sicuramente semplice. Ci sono però delle certezze, delle convinzioni di fondo rispetto al “come” raggiungere questo scopo che dovrebbero essere condivise.

Forse per riscoprire le nostre radici comuni occorre ritornare a ciò che scriveva Freinet rispetto al “calcolo vivente” e ricontestualizzarlo, mettendo in evidenza la “visione pedagogica” che c’era sotto quella tecnica.
Il “calcolo vivente”, consisteva, se non erro, nel “motivare” l’apprendimento e l’esercizio aritmetico partendo dalla soluzione di problemi matematici “posti dalla vita di classe”, da cui poi l’idea di Le Bohec del testo libero di matematica che, a mio giudizio, va ben oltre il vissuto esperienziale.
Quando si sostiene che prima si devono imparare i calcoli e poi verranno i problemi siamo di fronte ad un’inversione totale del costrutto pedagogico frenetiano. Questo è il primo contrasto che vorrei evidenziare.

Si trovano migliaia di siti che fanno fare calcoli ai bambini trasformando questo esercizio in competizione con se stessi o con altri, e sono altrettanto diffusi eserciziari e strumenti didattici che dovrebbero facilitare il calcolo rendendo tutto immediatamente accessibile, senza pensare. Ma le operazioni aritmetiche non si esauriscono nel calcolo, hanno un significato che si costruisce a partire da situazioni reali, da esperienze elementari che fanno i bambini fin da piccoli, giocando, manipolando materiali, relazionandosi con adulti e compagni. Gli algoritmi di calcolo sono un’altra cosa; nel corso dei secoli ne sono stati inventati tantissimi, alcuni hanno avuto più fortuna altri meno, ma non sono la matematica. Oggi il calcolo scritto non serve quasi più, se non come esercizio mentale, ciò che serve invece è saper calcolare a mente per poter valutare velocemente delle quantità, serve fare calcoli approssimati, non trovare risultati esatti, soprattutto per "controllare" i risultati delle macchine. Quanti di noi dovendo calcolare 1345 x 7851 si mettono ancora a scrivere su carta il calcolo? Per non parlare delle divisioni tipo 256,347 : 0,75 o cose simili. Il cellulare che tutti hanno in tasca ci mette a disposizione la calcolatrice senza limiti di spazio e di tempo e questo ha contribuito a segnare definitivamente il destino del calcolo scritto.
Se ciò che conta è il controllo, come imparare a ragionare su ordini di grandezza anziché su numeri dati? Non c’è dubbio che per dare senso al controllo si debba partire da situazioni reali, che sono sotto i nostri occhi. Ad esempio se vogliamo fare un’ipotesi sensata su quante persone potrebbero trovare posto in un cinema dobbiamo avere una strategia per contare i posti a sedere… immaginare quante persone in una fila… quante file… serve quindi un riferimento all’esperienza e un ragionamento, un modo di affrontare il problema, una strategia.
Questo penso sia anche il senso del “calcolo vivente”, esperienza e ragionamento.

Le tecniche per Freinet erano solo tecniche, ma erano inserite in un contesto pedagogico motivante in cui al centro c’era il bambino che portava a scuola ciò che faceva parte del suo vissuto personale. Su questo vissuto il maestro costruiva il lavoro di classe superando l’uso dei libri e in genere la trasmissione di una cultura già strutturata a favore di una ri-costruzione personale della cultura stessa che seguisse lo sviluppo spontaneo del bambino (il metodo naturale) senza rinunciare al ruolo di guida dell’insegnante e sottolineando nel contempo il ruolo della comunità classe nella co-costruzione di conoscenza, con un accento fondamentale sul ruolo del lavoro cooperativo e collaborativo.
Questo mi pare, come dicevo prima, nettamente in contrasto con una didattica in cui tutto è preconfezionato (da altri, nemmeno dall’insegnante) e in cui i bambini diventano meri esecutori di sequenze di esercizi individuali che vanno fatti così e non diversamente, altrimenti la tecnica non può avere successo. Qui emerge il secondo contrasto: applicazione di regole vs capacità di ragionare in modo autonomo.

I bambini non devono essere addestrati a dare le risposte giuste ma a pensare. Questo è sia nell’ottica della pedagogia popolare sia in quella della cittadinanza attiva: bisogna aver degli strumenti, delle “literacy”, per poter partecipare alla vita democratica. I bambini quindi devono imparare a costruire un ragionamento matematico in modo autonomo.
Gli schedari autocorrettivi di Freinet, non dati una volta per tutte ma costruiti con i bambini e in continuo arricchimento, avevano “solo” l’obiettivo di scaricare l’insegnante dalla gestione degli esercizi routinari, non volevano essere un “metodo”.
Io, pur non applicando sempre alla lettera le tecniche frenetiane (nel tempo le cose si evolvono…), preparavo il mio “schedario” settimanalmente proponendo ai bambini delle sequenze di esercizi sui temi affrontati nella settimana e a questo dedicavo un pomeriggio, durante il quale i bambini lavoravano a gruppi aiutandosi a vicenda. E fra gli strumenti c’erano anche le vecchie schede MCE di calcolo autocorrettive che ai bambini piacevano molto perché consentivano loro di lavorare in autonomia; nel frattempo io ero libera di affiancare i più bisognosi di aiuto. Ma quello era l’unico momento della settimana in cui i bambini avevano a che fare con le “schede”, tutto il resto dell’attività didattica avveniva a partire da problemi contestualizzati in campi di esperienza famigliari ai bambini che venivano risolti a piccoli gruppi, con una “accesa” negoziazione già in questa fase, e poi portati alla discussione collettiva in classe, dove si precisavano i significati matematici da costruire e, poco per volta, le conoscenze erano formalizzate. Questo modo di organizzare il lavoro in classe mette anche in evidenza un terzo motivo di contrasto: lavoro individuale vs lavoro di gruppo o meglio individualismo vs cooperazione.

Bisogna che i bambini abbiano “sete” di conoscenza come viene espresso dalla nota storia del cavallo che non andava a bere. La sete è la motivazione nell’apprendimento e per Freinet era fondamentale. Dubito che la sete di conoscenza si possa alimentare partendo dall’idea che la matematica sia memorizzazione di regole e procedure per imparare a dare in fretta la risposta giusta. Dubito anche che ci si possa affidare interamente all’intuizione per far capire la matematica. L’intuizione può aiutare all’inizio di un percorso per collegare ciò che già si sa con ciò che si sta per imparare. Si pensi ai modelli intuitivi dei problemi di aritmetica: mettere insieme e togliere, per le strutture additive, replicare e fare parti per le strutture moltiplicative; questi modelli, utili per far scattare il ragionamento nelle prime fasi dell’apprendimento, diventano presto degli ostacoli alla comprensione profonda del significato delle operazioni, vanno quindi superati perché senza una presa di coscienza dell’effettivo sapere in gioco non si arriva a conoscenze durature e men che meno a costruire competenze matematiche spendibili successivamente. La scuola frenetiana, pensata in continuità con la società, ha bisogno di conoscenze che durino nel tempo per poterle spendere nella vita quotidiana, sul lavoro. Un quarto motivo di contrasto può quindi essere determinato dall’affidarsi interamente alle capacità intuitive in contrapposizione con la comprensione profonda dei concetti determinata dalla presa di coscienza del proprio sapere: intuizione vs presa di coscienza.

La matematica non è fatta solo di parole ma, come ho già sottolineato più volte, di significati che sono stati costruiti nel tempo e con fatica. La matematica, per sua natura, esige uno sforzo di pensiero notevole perché è una costruzione culturale e del tutto astratta. Per costruire la consapevolezza di cui parlavo prima non basta sapere le parole, bisogna averne interiorizzato il significato, averlo fatto proprio. La professionalità dell’insegnante consiste proprio nel sapere predisporre degli itinerari che conducano i bambini a prendere coscienza del costrutto astratto della matematica senza perdita di significato e in modo quasi naturale. Esattamente come avviene per l’apprendimento della lettura e della scrittura. Un metodo naturale anche per la matematica.
Tutti gli studiosi affermano che il nostro cervello è in qualche modo predisposto alla matematica ma le strutture di base su cui possiamo contare per impararla sono molto elementari, non consentono di arrivare spontaneamente a costrutti teorici complessi. Abbiamo forse qualcosa che si potrebbe definire il “senso della matematica”, una base naturale su cui possiamo contare per costruire un “oggetto” che non è naturale, ma il frutto di un’elaborazione culturale di millenni da parte dell’uomo. Un ruolo determinante in questo processo di riappropriazione è giocato dall’uso di analogie e soprattutto di metafore perché, per poterci rappresentare nella mente i concetti, abbiamo bisogno di trasformarli in qualcosa di tangibile, di concreto cui applicare ragionamenti che siamo in grado di controllare perché fanno riferimento a fatti della vita di tutti i giorni. Non tutte le metafore però funzionano bene, quando sono messe a confronto con il concetto astratto.
Per questo occorre la guida dell’insegnante per orientare il pensiero verso l’uso di metafore che siano produttive dal punto di vista della conoscenza scientifica che, come ho appena detto, non ha quasi nulla di spontaneo. Capire quali sono le analogie produttive e le metafore giuste non è cosa da poco e non bisogna confondere questi costrutti con le libere associazioni mentali che utilizziamo per ricordare o memorizzare anche fatti matematici. Le metafore possono aiutare la comprensione, le tecniche di memorizzazione sono un’altra cosa e soprattutto non hanno un ruolo decisivo nella costruzione del pensiero matematico perché se c’è stata comprensione la memoria permane perché in qualsiasi momento siamo in grado di ricostruire il percorso che ci ha portati all’acquisizione di un concetto. Quinto elemento di contrasto: memorizzazione vs comprensione.

Vorrei ancora chiarire che cosa si intende per “linguaggio della matematica”, perché psicologi e pedagogisti non hanno idee del tutto consonanti con quelle dei matematici. Le batterie di prove utilizzate per testare la discalculia sono infatti oggetto di grande discussione tra matematici e psicologi proprio perché non danno, secondo alcuni, elementi sufficienti per fare una diagnosi di quel tipo. Sono spesso basate su test che nulla hanno a che fare con la comprensione della matematica nel senso che ho descritto prima, testano solo capacità tecniche e strumentali, la punta dell’iceberg quindi. Possiamo parlare di successo in matematica quando ci accorgiamo che i bambini hanno imparato a "pensare matematicamente”, non solo ad usare meccanicamente qualche “segmento” del linguaggio matematico.
Il linguaggio matematico deve diventare una specie di seconda lingua e si è competenti in matematica quando si usa quel linguaggio quasi come se fosse quello naturale, una specie di “protesi” utile per analizzare da quel punto di vista molte situazioni reali.
Ottenere ciò non è facile e soprattutto richiede un notevole impegno, cosa che Freinet penso non abbia mai sottovalutato. Le sue tecniche tendevano infatti a rendere “più leggero” il percorso di conoscenza degli allievi agendo non solo sugli strumenti ma soprattutto sulle motivazioni. Pensiamo all’uso del testo libero e della corrispondenza scolastica per costruire contesti motivanti per gli allievi. Sesto elemento di contrasto: facilità e poco impegno vs difficoltà da superare con fatica (ma non da soli).

La mia preoccupazione per il dilagare di tecniche facilitate e facilitanti è comunque più di tipo pedagogico che didattico. Penso che gli insegnanti più intelligenti siano in grado di accorgersi da soli che non possono fare matematica solo appoggiandosi ad eserciziari o a giochini su internet. Quindi sanno che dovranno comunque integrare certe proposte con attività più impegnative sul piano del ragionamento.
Tutti noi abbiamo usato e usiamo eserciziari per supportare il nostro lavoro nella parte tecnica e routinaria. Ma per i problemi il discorso si fa più complesso. Qualsiasi problema aritmetico va affrontato con consapevolezza del significato delle operazioni se vogliamo che sia risolto, non esistono “ricette” per scoprire l’operazione giusta “senza pensare” (troppo). Deleterio in questo senso l’uso delle parole chiave per “indovinare” il calcolo che portano ad una distorsione di tutti i significati. Le diverse strategie messe in atto dai bambini per risolvere un problema sono una ricchezza, anche quelle errate, perché nel momento in cui diventano oggetto di un confronto tra gli allievi, si trasformano in nuove conoscenze. Durante la discussione in classe i bambini sono invitati a giustificare le loro scelte e quindi ad argomentare, si rendono conto delle idee che non funzionano e di quelle che sembrano più produttive per lo scopo. Il ruolo positivo dell’errore, se la costruzione della conoscenza avviene in un contesto di negoziazione sociale, è fondamentale. Dobbiamo insegnare agli allievi non a “non sbagliare” ma a sbagliare e a rendersi conto degli errori per superarli. In questo a volte i software funzionano perché, invitano a riprovare con dei rinforzi positivi di vario genere, e, se dopo alcuni tentativi, non si trova la risposta presentano le soluzioni corrette. Ma è pur sempre la logica del giusto/sbagliato e soprattutto dell’addestramento. Questo potrebbe essere forse l’ultimo punto di contrasto: addestrare a non sbagliare vs valore positivo dell’errore.

Qualsiasi situazione “matematica” può diventare fonte di apprendimento, come ci ha dimostrato anche Le Bohec con i suoi testi liberi. Ma bisogna saperla “prendere” per aiutare i bambini a rielaborarla, a darle un senso personale perché è questo il vero motore dell’apprendimento, ciò che aiuta i bambini a riutilizzare quella conoscenza in altre situazioni è averne compreso il senso. Questo implica un coinvolgimento personale, la ricerca di un collegamento tra quella situazione e la nostra esperienza, non si può confinare tutto al semplice apprendimento di tecniche che ingabbiano la mente e irrigidiscono i concetti.

Interessante quanto scrive Bruno D’Amore, in un articolo apparso tempo fa su “La vita scolastica online”, rispetto agli errori pedagogici determinati dall’uso di metodi univoci: “Sappiamo oggi che ogni apprendimento umano è “situato”; cioè: se un essere umano apprende qualcosa in una certa situazione (…), apprende sì quel certo contenuto in quella data situazione, ma basta, null’altro! Il transfer cognitivo, cioè la capacità di trasportare l’apprendimento avvenuto in quella situazione a un’altra situazione, non è automatico (…) occorre una generalizzazione dell’apprendimento avvenuto; ma proprio l’aver appreso in una data situazione, con un dato strumento pre-disposto, blocca questo passaggio verso la generalità.”

Concludo citando un breve passo dal libro “La scuola del fare”, un’antologia di scritti di Célestin Freinet curata da Roberto Eynard:
“L’acquisizione dei meccanismi è solo un aspetto accessorio della comprensione intelligente del calcolo. Ciò che importa e che, pertanto, dovrebbe essere seguito in modo particolare, è il senso matematico, risultato di un lungo apprendimento a base di tâtonnement sperimentale e di vita”

Una matematica di senso, quindi.